From Bambini di ferro
Written in Italian by Viola Di Grado
L’Accudimento Artificiale aveva una durata di tre anni. Nei primi tre mesi, la testa dell’Unità Materna veniva regolarmente collegata a una calotta sulla testa del bambino. Così intercettava immediatamente tutte le sue necessità: conosceva i segnali elettrici della sua fame e della sua solitudine, del suo bisogno di essere cullato in silenzio.
La notte, sempre sintonizzata alla testa del bambino che dormiva, l’Unità riceveva in violente onde elettroencefalografiche gli orrori della sua mente. Li registrava, li assimilava, glieli restituiva l’indomani processati e trasformati in dati meno spaventosi.
Nella stanza bianca e spoglia, insonorizzata e privata di oggetti di qualsiasi tipo per non complicare l’interazione dell’androide con l’ambiente, esisteva soltanto quel sistema di amore perfetto.
A un bisogno corrispondeva immediatamente il suo soddisfacimento e ogni angoscia veniva processata in tempo reale.
L’Unità sapeva leggere ogni informazione emotiva sul viso del bambino e rispondere in modo appropriato. Il suo sensore di visione emotiva rilevava i segnali in voxel, li analizzava, accoppiava a ogni espressione del bambino la sua emozione appropriata e la metteva in atto.
I suoi cilindri e tutti i meccanismi che generavano moto erano ad aria pressurizzata, la temperatura dell’abbraccio poteva essere regolata e anche la pressione delle braccia: quella standard era stata regolata sulla pressione minima e costante della sacca marsupiale del canguro sul cucciolo protetto.
Il suo amore era un sistema algoritmico programmato da un’équipe di tecnici, monaci buddhisti di tre scuole diverse e psicoanalisti europei. Il suo amore era basato su una rappresentazione affettiva del mondo che aveva come unici abitanti madre e bambino.
Il bambino era l’unico oggetto che l’Unità Materna era in grado di riconoscere: il suo sistema di visione era stato dotato di una sola immagine umana di riferimento. Il sistema rilevava e frammentava il piccolo viso umano al centro della stanza e a ogni frammento assegnava un valore legato all’intensità della luce. Più vicino al bianco appariva, più il valore era alto. Se il segnale letto e quello di riferimento erano sufficientemente simili, l’algoritmo dell’amore si attivava, il sorriso meccanico dell’Unità Materna si accendeva dall’interno, le sue braccia sospese sul tronco mozzo si distendevano verso il bambino per abbracciarlo, il suo corpo rilasciava calore.
Nessuna madre poteva essere all’altezza di un’Unità Materna Sintetica.
Il cervello umano è un dispositivo primitivo e fallimentare. I sei strati di neuroni della corteccia cerebrale sono collegati in modo ripetitivo, sprecano gran parte delle loro funzioni solo per crescere e non possono compiere più di cento operazioni di calcolo al secondo: un risultato ridicolo rispetto alle potenzialità di un computer. In più il loro funzionamento è basato su un danno costante: per comunicare, liberano sostanze chimiche che corrodono le membrane esterne delle altre cellule. Come se non bastasse, il dispositivo cervello è asservito a un corpo la cui manutenzione richiede enormi dosi di energia. Il vinile vischioso della corteccia umana, con i suoi due millimetri di spessore, era un software datato e inaffidabile per il compito fondamentale della formazione di un essere umano. Una Madre Artificiale programmata correttamente era in grado di fornire cure di gran lunga superiori. E la progettazione dall’esterno, rispetto alla progettazione interna di un cervello, eliminava gli sprechi di energia e consentiva un miglioramento costante della macchina.
Avrebbe dovuto funzionare.
Ma qualcosa era andato storto.
Qualcosa era andato storto.
Qualcosa era andato storto.
Yuki Yoshida era una degli issendai.
I bambini di ferro.
Dal cuore freddo e difettoso, impossibili da aggiustare.
La sua nascita era il risultato dell’accoppiamento non programmato di due giovani ballerini di new mai, un trend che inglobava elementi di danza kyōmai d’intrattenimento femminile del tredicesimo secolo a elementi di danza classica europea. Lei era di Tōkyō, ossessionata dalla propria carriera e con una vita sessuale promiscua, lui era di Sapporo e già sposato. Si erano conosciuti nella città di lui, durante una tournée di lei nell’Hokkaido, in un grande ristorante dalle pareti di vetro dove danzavano per un capo d’azienda. Yuki era stata riassegnata a un’Unità Materna Sintetica il giorno del suo terzo compleanno, dunque non ricordava quasi nulla dell’accudimento biologico precedente al suo internamento. Non ricordava i dettagli fisici dei suoi genitori biologici, ma li conosceva attraverso la documentazione multimediale disponibile su Internet e anche in istituto, nel database di ogni computer in sala comune. La sua nostalgia aveva quindi una qualità sintetica che la rendeva più facile da trasportare nella mente.
A giudicare dalle foto, la madre di Yuki era responsabile della sua ossatura sfuggente e della sua pelle trasparente; suo padre, invece, degli occhi grandi, dell’ovale del viso e delle labbra scure. Poco dopo lo smaltimento della sua Unità Materna Sintetica, sua madre era morta di leucemia fulminante. La disattivazione della sua Unità Materna avvenne il 4 maggio.
La mente di Yuki aveva tentato di cancellare i ricordi degli ultimi quattordici giorni di Accudimento Artificiale, ma era pervenuta solo al risultato standard di un computer, che quando riceve l’ordine di cancellare un dato lo nasconde temporaneamente sotto un nome sconosciuto.
Furono anni veloci e confusionari.
Yuki andava spesso al secondo piano, che era più spazioso del primo, pieno di persone che non conosceva e soprattutto meno controllato dagli educatori. C’erano grandi finestre che davano su un’ex area residenziale: case vecchie con gli shoji di carta sfondati, gatti selvatici, il cortile sul retro di due templi ancora abitati ma chiusi al pubblico. Yuki guardava raramente fuori dalla finestra, ma le poche volte in cui l’aveva fatto il cortile non era animato da vita umana. Su un filo metallico, a destra del giardino secco, una fila di koromo giallo oro messi ad asciugare si muoveva regolare e vuota secondo il vento.
Il piano era pieno di ragazzini che parlavano, giocavano, si raccontavano storie, si scambiavano i dispositivi di compagnia.
Yuki si metteva in un angolo a memorizzare le loro espressioni facciali, le loro parole, le loro opinioni. Dopo qualche mese di esercizio, era in grado di imitare anche i loro gesti d’amore geneticamente programmati, come le carezze e gli abbracci, i baci. Riusciva ad afferrare il suo cuscino e abbracciarlo con un movimento fluido che sembrava spontaneo, o schioccare al muro un bacio vero.
Sapeva bene che agli issendai non era consentito mescolarsi con gli altri. In pastello rosso in una stanza al secondo piano dove si era intrufolata di nascosto c’era scritto: GLI ISSENDAI MORIRANNO PER SEMPRE. SE UCCIDI UNA FORMICA SARAI ACCUSATO DI OMICIDIO, MA NON SE UCCIDI UN ISSENDAI. Mahāparinirvāna Sūtra.
Gli altri erano meno dipendenti dalle figure di riferimento che gestivano l’istituto. Erano quelli che uscivano dall’istituto senza perdersi e tornavano senza doversi ritrovare. Gli altri erano tutti quelli in possesso del tempo regolare.
Yuki, che non ce l’aveva, ricorreva all’aiuto degli oggetti. Gli oggetti suggerivano la direzione del tempo regolare. Ad esempio, una tazza che cadeva dal tavolo della mensa e si frantumava non sarebbe mai ritornata intera.
Sessantunesimo giorno di Accudimento.
Camera EPAA.
Erano le 18.05, e quel giorno Yuki era un po’ influenzata, aveva il naso screpolato e aveva con sé dei fazzoletti di Sailor Moon.
L’Unità Materna disse: Yuki ha freddo e sonno, vuole venire dentro la sua mamma a fare un breve riposino. Yucchan, entra dentro di me.
A volte l’Unità Materna la chiamava così: Yucchan.
Yuki sapeva che Yucchan era un vezzeggiativo. I vezzeggiativi una volta erano molto in voga. Allora, in tutto il mondo, si usava strizzare i nomi per far sentire amato l’interlocutore. Un tempo i nomi erano importanti: per tenere i vivi sotto controllo e i morti chiusi nella tomba.
Si avvicinò all’Unità.
Si avvicinò di più.
Aveva gli occhi socchiusi.
Un sorriso mite.
Gli occhi si illuminarono, cominciò a cantare con voce gutturale e lenta, oscillatoria: Puoi entrare, puoi entrare / che cos’è questo stretto sentiero?
Yuki riconobbe la ninna nanna. L’aveva sentita in televisione e poi digitalizzata in un semaforo di Shijo-dori.
È lo stretto sentiero del dio del cielo / chi non ha una buona ragione non passerà.
Yuki sentì una leggera pressione sullo stomaco.
Entrare è bello ma ritornare è spaventoso.
Abbassò gli occhi e notò sullo stomaco dell’Unità Materna i contorni di una piccola porta.
Sulla porta c’era una piccola lettera sanscrita.
La porta si stava aprendo.
Anche se ho paura, per favore, lasciami entrare.
Lasciami entrare. Lasciami entrare.
Si spostò di lato.
Lo sportello era aperto.
L’interno del petto dell’Unità Materna Sintetica era di un bianco fitto e luminoso come l’interno di una conchiglia.
Yuki si avvicinò ancora.
Il calore la investì.
Entrò.
Chiuse lo sportello.
La luce dell’antro aumentò gradualmente.
Silenzio.
Silenzio assoluto.
Tranne il rombo leggero dell’illuminazione.
La luce era sempre più forte, accecante.
Poi dalla parete emanò la voce dell’Unità: E i grandi Brahma nelle cinquecento miriadi di mondi del Sudest videro il proprio palazzo illuminarsi con un raggio di luce mai visto prima. Gioiosi ed estatici, furono fulminati dalla meraviglia. Qual era la ragione per cui questo fenomeno era accaduto?
Yuki si rannicchiò, le braccia strette alle gambe.
Respirò aria inodore.
Fin dai tempi più antichi quella luce non aveva precedenti.
Spinse i suoi occhi a serrarsi.
Era nato un non umano di grande merito? Un Buddha era apparso nel loro mondo per salvare gli esseri sofferenti? Sūtra del Loto, capitolo 7.
L’Unità Materna emise un sospiro simile a un ultimo risucchio di vento quando si chiude una finestra. Poi si zittì. Dietro la schiena di Yuki il metallo bianco luccicante si curvava in un avvallamento in neoprene color glicine che ricordava la forma di un nido. Yuki incastrò il proprio corpo all’interno, le gambe strette tra le gambe e gli occhi chiusi. Ci entrava perfettamente.
Yucchan si sente meglio adesso?
Dall’interno del petto, la voce dell’Unità Materna aveva una grana più scura, profonda.
“Sì, mamma. Yucchan si sente meglio.”
Buonanotte, Yucchan.
“Buonanotte, mamma.”
Yucchan chiuse gli occhi.
Assorbì nelle palpebre la luce bianca immensa.
Published August 9, 2017
From Bambini di ferro, La nave di Teseo, Milano 2016
© 2016, La nave di Teseo editore, Milano
人工保育は三年つづいた。はじめの三か月、アンドロイドの〈母〉の頭部は子どもの頭上のキャップと定期的に接続され、その子の要求のすべてを即時に読みとった。子どもの空腹、孤独感、腕にそっと抱かれたい気持ちを示す電気信号を知っていたのだ。
夜、アンドロイドは睡眠中の子どもの頭部と常時接続して、恐怖をあらわす脳波のはげしい振幅をとらえた。そしてそれらを記録し、同化し、恐怖を抑制したデータに処理変換して、翌日子どもに送り返した。
白く飾り気のない部屋は、アンドロイドとその周辺環境の相互作用を妨害しないために遮音され、あらゆる種類の物品が取り除かれていた。そこに存在するのは、完璧な愛の体系だけだった。
欲求は瞬時に満たされ、どんな苦悩もリアルタイムで処理された。
アンドロイドは子どもの顔面にあらわれるあらゆる種類の感情データを読み、適切に対応することができた。感情センサーがボクセルデータを収集し、解析し、子どもの表情それぞれにふさわしい反応を選択し、それを作動させた。
運動を引き起こすシリンダーとメカニズムのすべてはエア加圧で、子どもを抱きしめるときの温度は調節可能だった。腕の力加減も変更がきき、その標準は、嚢の中で守られているカンガルーの子にかかる、ごくわずかな一定の圧力に設定されていた。
アンドロイドの愛は、三宗派の仏僧とヨーロッパの精神分析学者からなる専門家のチームによってプログラミングされた、アルゴリズムの体系であった。その愛は、母と子を唯一の住人とする世界における、心の動きの表出を基にしていた。
子どもはアンドロイドの〈母〉が認識することのできる唯一の対象だった。その視覚システムには、ただひとりの人間の像が基準として与えられていた。システムは部屋の中央に小さな顔をとらえると、それを部分に分割し、それらそれぞれに光の強さをあらわす数値を当てはめた。白に近ければ近いほど値は大きかった。読みとった信号と基準となるそれが十分に類似していれば愛のアルゴリズムが始動し、アンドロイドの〈母〉の内部で微笑みのスイッチが入り、胴体にぶらさがった腕が子どもを抱き寄せるために伸び、体は熱を放出した。
どんな母もアンドロイドの〈母〉にはかなわなかった。
人間の脳は原始的で破綻した仕掛けである。大脳皮質のニューロンの六つの層は接続をくりかえし、増殖のためだけに機能の大半を消耗し、一秒あたり百をこえる計算を実行することができない。コンピュータの能力と比べて、取るに足らない値である。それに、それらの働きは一定の害なしにはありえない。情報を伝達するとき、ほかの細胞の外膜を腐食する化学物質を分泌してしまうのだ。さらに脳は、みずからの維持のために莫大な量のエネルギーを要する身体に付随する装置なのだ。厚さ二ミリの大脳皮質の粘着質の円盤は、ひとりの人間の育成という重要な課題には、時代遅れで信用のおけないソフトウェアだった。正確にプログラミングされたアンドロイドの〈母〉のほうがずっと高度な子育てを提供することができた。それに、脳を内部から設計するのに比べ、外部からの設計はエネルギーの無駄を省き、ロボットの常時改良を可能にしていた。
うまく行くはずだった。
だが、なにかが間違っていた。
なにかが間違っていた。
なにかが間違っていた。
吉田ユキは〈一闡提〉のひとり。
鉄の子ども。
心が冷たく不完全で、矯正不可能。
彼女は二人の若い男女の無計画なセックスから生まれた。両親は当時流行していた〈ニュー舞〉―――十三世紀の芸妓たちによる〈京舞〉の要素とヨーロッパのクラシック舞踏の要素を混合したもの―――のダンサーだった。女は東京出身で、仕事のことで頭がいっぱいで、奔放な性生活を送っていた。男は札幌の出で既婚だった。女が北海道を巡業していたとき、二人は男の街で知りあった。ガラスの壁の大きなレストランで、ある会社の社長のために踊ったときのことだった。ユキは三歳の誕生日にアンドロイドの〈母〉に託されたので、施設に入るまえの実の親による子育てについては、ほとんどなにも覚えていなかった。両親の身体的特徴は記憶になかったが、インターネットで見ることのできるマルチメディアの資料や、施設のコミュニティールームにあるコンピュータのデータベースを通して、彼らのことを知っていた。だから彼女の里心は人工的な性質をもつもので、その分、心のなかに運びやすかった。
写真から判断するかぎり、ユキの貧弱な骨格と透きとおる肌は母親ゆずり、大きな眼、卵型の顔、色のくすんだ唇は父親ゆずりのようだった。母が急性白血病で亡くなったのは、アンドロイドの〈母〉が廃棄処理された直後だった。アンドロイドの機能喪失は五月四日のことだった。
ユキの脳は人工保育の最後の十四日間の記憶を抹消しようとしたが、データ削除の命令を受けたコンピュータが実行する標準的な作動をくりかえすにとどまった。消去すべき情報をあらたな名前で置き換えることによって一時的に隠すだけだったのである。
あっという間の目まぐるしい年月だった。
ユキはよく二階へ行った。そこは一階より広々とし、知らない者が数多くいて、そしてなにより教員の目が下の階ほど行き届いていなかった。大きな窓があり、かつて住宅街だった地域―――障子の壊れた古びた家々、野良猫、住人はまだいるものの参拝客は受けつけていない二軒の寺の裏庭―――が見渡せた。そもそもユキが窓から外を眺めることはめったになかったが、その裏庭に誰かがいるのを目にしたことは一度もなかった。枯れた庭の右側に針金が一本張られ、そこにひっかけられて乾かされている黄金色の法衣の列が、整然と、風をうけてひらひらと揺れていた。
二階はことばを交わしたり一緒に遊んだり、出来事を報告しあったりペットロボットを交換したりする児童であふれていた。ユキはその一角に身をひそめ、彼らの顔の表情、彼らのことば、彼らの考え方を頭に詰めこんだ。何か月か練習すると、身体を優しくなでたり抱きしめたり口づけをしたりといった、彼らの遺伝子にプログラミングされている愛情表現をも、まねることができるようになった。いかにも自然な滑らかな動作で枕をつかんで抱いたり、壁にむかってチュッとキスしたりできるようになった。
ユキはよく分かっていた。〈一闡提〉は〈彼ら〉と交わってはいけないことを。こっそり忍びこんだ二階の一室で、赤絵具で記された文章を見たことがあった。
而一闡提輩永斷滅故 殺害蟻子猶得殺罪 殺一闡提無有殺罪(一闡提は永久に滅するであろう。蟻を殺せば殺害の罪に問われるが、一闡提を殺めても罪に問われない)―――大般涅槃経
〈彼ら〉は施設を運営する職員たちに、ユキほど依存していなかった。外出しても迷子になることなく、捜索されもせずに施設にもどってきた。〈彼ら〉には全員、正常な時間が流れていた。
ユキにはそれが欠けていたから、物体の助けに頼らざるをえなかった。物体は正常な時間の進む方向を示してくれた。たとえばマグカップのように、食堂のテーブルから落ちて割れてしまえば、絶対に元通りにはならないということを。
人工保育、六十一日目。
EPAA実験室。
十八時五分。その日、ユキは風邪気味で鼻がかぶれ、セーラームーンのティッシュペーパーを持ち歩いていた。
アンドロイドの〈母〉が言った。ユキちゃんは寒くって眠たくって、ママの中でちょっとおねんねしたいって。ユッチャン、ママの中にお入り。
アンドロイドの〈母〉はときどき、彼女のことをそう呼んだ。
ユッチャン―――それは愛称だった。かつて愛称がたいへん流行したことがあり、愛されていることを話し相手に実感させるために、名前を縮めて呼ぶ習慣が世界中に広まった。古く、名前は大切なものとされた。生者を支配し、死者を墓に閉じこめておくために。
ユキはアンドロイドに近づいた。
もう一歩、近づいた。
〈母〉は眼を細めていた。
おだやかに微笑んでいた。
そして眼を光らせ、しわがれた張りのない声をふるわせながら歌いはじめた。通りゃんせ 通りゃんせ ここはどこの細道じゃ
ユキの知っている子守唄だった。テレビで耳にしたことがあり、四条通の信号のデジタル音にもなっていた。
天神さまの細道じゃ 御用のないもの通しゃせぬ
ユキは胃が軽く押さえつけられるように感じた。
行きはよいよい 帰りはこわい
視線を下にやると、アンドロイドの〈母〉の胃の上に小さな扉の輪郭があるのに気づいた。
扉にはサンスクリット文字がひとつ小さく書かれてあった。
扉が開こうとしていた。
こわいながらも ちっと通してくだしゃんせ
ちっと通してくだしゃんせ ちっと通してくだしゃんせ
ユキは脇によけた。
入り口が開いていた。
アンドロイドの〈母〉の胸の内部は、まるで貝殻の内側のように、真っ白く輝いていた。
ユキはもう一度近よった。
すると温かい空気に全身がおおわれた。
入り口をくぐった。
そして扉を閉めた。
空洞を照らす光がどんどん膨らんだ。
静かだった。
まったくなにも聞こえなかった。
照明器具から出るかすかな音以外は。
光はどんどん強くなり、目をくらませた。
すると壁からアンドロイドの声が出てきた。
そして南東方の五百万億の仏国土の偉大な梵天さまたちは、おのおのの宮殿がかつて目にしたことのない光明で輝くのをご覧になりました。我を忘れるほど大いに喜ばれ、その不可思議に恍惚となられました。いったいどうしてこんなことが起きたのでしょう。
ユキは腕で脚をくるんでしゃがみこんだ。
においのない空気を吸いこんだ。
そのような光は大昔より類をみないものでした。
ぎゅっと眼をつむった。
大いなる徳をもつ天人さまがお生まれになったのかしら。苦しむ衆生を救うため如来さまが出現されたのかしら―――法華経「化城喩品第七」
アンドロイドの〈母〉は、窓が閉まる瞬間に聞こえる風の旋回に似た息を吐き、黙りこんだ。白く光る金属はユキの背中のうしろで丸くへこんでいた。そのくぼみは淡い紫のネオプレンでできていて、まるで巣のようだった。ユキはその中に身体をもぐりこませ、両脚をそろえて眼を閉じた。全身がぴったり収まった。
ユッチャン、元気になった?
胸の内側で聞くアンドロイドの〈母〉の声はいつもより暗く、低かった。
「うん、ママ。ユッチャン元気になったよ」
おやすみ、ユッチャン。
「おやすみ、ママ」
ユッチャンは眼を閉じた。
大きな真っ白の光がまぶたの裏にひろがった。
Published August 9, 2017
From Bambini di ferro, La nave di Teseo, Milano 2016
© 2016, La nave di Teseo editore, Milano
© 2017, Specimen
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Quello di “Bambini di ferro” è un complicatissimo mondo in cui il gesto d’affetto è ormai obsoleto, in cui il sentimento d’amore non è più spontaneo, e dev’essere messo in atto come uno spinoso rituale o un algoritmo. Un mondo in cui vengono progettati degli appositi dispositivi, le Unità Materne, per crescere i bambini. Programmate a un amore perfetto, le Unità Materne nascono per creare adulti più felici. Ma naturalmente si rivelano fallimentari e pericolose, a causa della contaminazione di un virus da parte di un gruppo sovversivo. D’altronde anche l’amore umano, non solo quello algoritmico, non può essere perfetto ma viene sempre trasmesso con tutti i traumi, le complessità e le imperfezioni della persona che lo trasmette. Volevo un romanzo la cui struttura rispecchiasse quella di una mente schizoide, in cui si scontrassero e sovrapponessero diversi testi e sottotesti, voci e contro-voci (ermetici sutra buddhisti, teorie scientifiche e antropologiche, narrazione storica e narrazione mitologica, voci effettive e voci interiori). In cui i personaggi stessi potessero essere letti come i cocci di una mente sofferente. In cui l’anima, secondo una visione shintoistica della realtà, non è prerogativa dell’essere umano ma viene dislocata dalla narrazione, così che risultino più umani certi oggetti (i robot, altri feticci come le bambole) rispetto agli esseri umani della storia (Sada ad esempio, la crudele direttrice dell’istituto, o Yuki, l’educatrice che percepisce i suoi stati d’animo come calcoli di un computer). E’ un realismo nuovo, non più antropocentrico, che tiene conto della realtà intera. Volevo che la narrazione, sia effettiva che simbolica, incarnasse l’idea buddhista di “identità”, che consiste di frammenti eterogenei e che solo illusoriamente si organizza in un’unità che per comodità chiamiamo “io”. Trovavo interessante che le antiche teorie buddhiste sull’identità corrispondano oggi a ciò che viene descritto e diagnosticato come schizofrenia. La protagonista, Sumiko, è un non-personaggio: non parla, si muove appena, su di lei si specchiano i traumi degli altri personaggi. Autistica secondo i suoi educatori in istituto, più probabilmente è un Buddha che si è spostato più avanti del livello comune di interazione umana. È su questo livello che si incontrano Sumiko e Yuki, la sua educatrice. A ogni lettura del libro può corrispondere un diverso percorso interpretativo: si può seguire la pista religiosa, neuro-psichiatrica, storica, e così via. A ogni lettura, Sumiko può essere qualcos’altro. È a disposizione del lettore, un piccolo Buddha inerme ma potentissimo, capace di raccogliere e mitigare il dolore dell’umanità. Come scrisse Laing, “la schizofrenia è solo un’etichetta appiccicata da alcune persone su altre sotto certe condizioni sociali”. E allora chi è davvero sano e chi è malato? In una società alienata, non sono gli “alienati” ad essere più prossimi a un concetto puro di umanità?
– Viola Di Grado
The world of “Bambini di ferro” (“Iron Children”) is a complicated one in which affection is obsolete, in which the feeling of love is no longer spontaneous, and must be put into practice as a delicate ritual or algorithm. It is a world in which special devices, Maternal Units, are designed to raise children. Programmed for perfect love, Maternal Units were created to create happier adults. But of course they are faulty and dangerous because of being infected by a virus from a subversive group. Then again, human love, not only algorithmic love, cannot be perfect but is always transmitted with all the traumas, complexities and imperfections of the person who transmits it. I wanted a novel whose structure reflected that of a schizoid mind, in which several texts and subtexts, voices and counter-voices (hermetic Buddhist sutras, scientific and anthropological theories, historical narrative and mythological narrative, actual voices and inner voices) clash and superimpose. In which the characters themselves could be read like the cracks of a suffering mind. In which the soul, according to a Shinto view of reality, is not a prerogative of the human being, but is displaced by narrative, so that in the novel certain objects (robots, other idols such as dolls) are more humane than human beings (Sada for example, the cruel director of the institute, or Yuki, the teacher who perceives her moods as computer calculations). It is a new, no longer anthropocentric realism that takes into account the whole reality. I wanted the story, both actual and symbolic, to embody the Buddhist idea of “identity,” consisting of heterogeneous fragments, which are only falsely organized into a unity that we call “I” for convenience. I found it interesting that ancient Buddhist identity theories today correspond to what is described and diagnosed as schizophrenia. The protagonist, Sumiko, is a non-character: she does not speak, barely moves, the traumas of other characters are reflected on her. According to her teachers at the institute she is autistic, most likely she is a Buddha who moved beyond the common level of human interaction. It is on this level that Sumiko and Yuki, her teacher, meet. Each reading of the book may correspond to a different interpretation path: one can follow the religious, neuro-psychiatric, historical paths, and so on. At each reading, Sumiko may be something else. It is up to the reader: a small unarmed but powerful Buddha, capable of gathering and reducing the pain of humanity. As Laing wrote, “Schizophrenia is just a label attached by some people to others under certain social conditions.” So who is really healthy and who is sick? In an alienated society, are the “alienated ones” closer to a pure concept of humanity?
– Viola Di Grado
Translated by Tom Loughnane
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