Requiem per casa di riposo lombarda
Written in Italian by Fabio Pusterla
I
Se la luce filtrasse da qui se un passante
nel mondo potesse coglierne un raggio
fuggito tra le sbarre orizzontali le lame
di queste incrostate tapparelle che ci esiliano,
sarebbe un alone giallo di caldo malsano
come passato attraverso un boccale d’urina
e un attimo dopo, piccolo tuono in sordina,
dall’alto un suono verrebbe un belato di donna,
una sola parola ripetuta e tuttavia indecifrabile
preghiera inutile o rantolo o spasimo distante
una sola parola chiarissima che si protrae
incomprensibile lamento inascoltato
se non dal passante svagato che un attimo sosta
senza capire turbato. Oh, porta
tu camminante nel mondo il belato di donna,
l’ombra di noi qui stremati oltre il fiume invisibile.
II
Nomi, se ho avuto un nome
adesso è naufragato,
chiamatemi Ismaele
chiamatemi Magellano devastato.
Nave di perse vele,
beccheggio in questo mare dei sargassi
della mia mente atlantica e affollata,
larga putrefazione dove le anguille vengono
sfiancate a morire e riprodursi
e da neuroni algosi guizzano frenetici
leptocefali o impulsi di pensieri
che vanno negli abissi o si trasformano
in branchi di cieche idee buone da friggere.
La mia mente! Un palazzo di smemoria
inghiottito dall’ombra forestale,
una vasta ricchezza perduta.
O un grumo secco di case abbandonate
dopo una pestilenza e adesso avvolte
dai rovi. Da questa immedicabile rovina,
dal cassero della mia nave fantasma,
vi guardo nella vostra sicumera
nella vostra resiliente ipocrisia
cari parenti partenti impazienti,
cari serpenti alacri e indaffarati:
prima li abbandonate poi sdegnati
ne piangete il misero languire
l’avventuroso inutile viaggio,
deriva o maccheria.
Merce avariata macchina obsoleta
ingombri, questo siamo
per voi merci più fresche. E così sia.
Dottore, se ne stia
zitto qui accanto, adesso, devo reggere
bene la barra in queste scure acque
ostili e inconosciute; e voi badanti,
infermieri: orzate i cuori, ammainate la bontà.
Cerco il passaggio, dottore, il canale
che unisce i due emisferi cerebrali,
una chiarezza d’incubo o visione.
Cerco nel ghiaccio e nel fuoco, nella mente
bicamerale o nella merda,
cerco e spero
che ogni rotta si perda, che il tempo
esca dal ritmo collassi nell’eterno
indistinto. Non v’ingannate, vermi,
questo non è l’inferno.
L’inferno è solo vostro, noi salpiamo
e non chiediamo pace
o pietà. Non capite? Cantiamo
chi ha compagni
non morirà. Un’antica aria
nella storia dei paria,
un’antica canzone.
III
Riposa la signora della camera accanto
riposano i suoi mostri. Quella che vaga
per tutto il giorno sopra unghie di sasso
tra i resti di un incendio,
l’altra che bruca e bruca
un’erba di sventura e bela e geme,
e anche la terza, maga d’ali morte,
tutte, ora tutte dormono
il loro sonno chimico
corpi che culla un precario
oceano Pacifico. Le porte
adesso sono chiuse sulle camere,
la luce azzurra pulsa silenziosa
nei corridoi del vuoto, come un faro
per navi che non passano. Io veglio
insonne alla mia riva. Veglio e spenso,
e spensando proteggo queste miti
figure della notte e del dolore.
IV
Autocarri nel posteggio
stanno scaldando i motori:
teli verdi sul cassone
guidatori attoniti corpi
siderati nell’attesa del viaggio.
Posto per tutti: luminosa l’evidenza
che cancella il passato o ne attenua
il peso di colpa e nostalgia.
Ognuno qui ha i suoi errori da scontare
la canasta di volti perduti e rimorsi.
Se una musica sa nascere persino
nelle latrine di un lager,
una musica per la fine del tempo.
Se una musica sa nascere dallo stridore
e può uscire dal tempo: anche noi.
In questo vasto abisso d’uccelli
nel verde appena accennato:
tra cupa notte e giorno impraticabile
la frenesia di fischi, di voli,
campanelli argentati, tramestio.
Cara vita che amiamo anche quaggiù
ci sorprendi e ci chiami, già distante,
ci leghi poi ci neghi beffarda. Ci sospingi:
se ancora è per noi tutto così vivido
di fronte a tutti, di tutto non colpevoli.
Alzano gli occhi i soldati tormentosi
seguono le picchiate dei merli
la ruota vertiginosa delle rondini.
Un pettirosso saltella sulle bare:
chi partirà partirà per l’oblio.
Nessuno piange per l’erba dei prati
la campanula si chiude e poi ricade:
la vita è così festosa, così gioconda.
V
Ripugnante camomilla
Calda orina che sfavilla
Ribellione che scintilla
Se mi ergo sul letto
Mi batto sul petto
Con fiero dispetto
Se innalzo il pannolone
E nudo sul piumone
Impugno il mio bastone
E piscio sul mondo
Osceno sprofondo
Nel mio girotondo
Di scherno disperato
Diritto calpestato
Di vecchio scapestrato
Di vecchio demente
Di vecchio fremente
Di vecchio piangente
Di vecchio che non cede
Di vecchio che non vede
Di vecchio che non crede
Nel vostro credo mefitico
Nel vostro denaro salvifico
Nel vostro sorriso malefico
Oppiacei non placano
Cinghie non bastano
I vecchi non scordano
I vecchi impotenti
Però impenitenti
I vecchi contenti
Di poco e di tutto
Di vino o prosciutto
Di grappa e di rutto
Rivolta tremenda
Parola si prenda
La smorfia più orrenda
Si stampi contro quei vetri
Nei giorni sempre più tetri
Nell’ora in cui non arretri
La lucidità del dolore
La chiara evidenza d’errore
La nostalgia dell’amore
Il coraggio di fronte all’orrore
La memoria di questo dolore
La speranza di un ultimo ardore
Primavera che sfavilla
Fogliolina che s’immilla
Tronchi foglie clorofilla
Danze fiori merli fischi
Chi è perduto ora si arrischi
Chi ha paura non si immischi
Questa è l’ultima rivolta
L’ultima festa l’ultima svolta
L’ultima giornata di gloria
Verso il tempo che si perde
Fuori dal ritmo fuori dalla storia
Dentro il verde con il verde in mezzo al verde.
Nota
Ispirato ai tragici avvenimenti della primavera 2020. Ricorrono nel testo alcuni echi: in II, di alcuni versi della riscrittura di Franco Fortini dell’Internazionale; in IV e altrove del Quatuor pour la fin du temps di Oliver Messiaen, composto nello Stalag VIII-A di Görlitz. Sempre in IV, il verso 25 e il verso finale richiamano o riprendono le parole di Markel, il fratello dello starec Zosima, nei Karamazov (versione di Agostino Villa). Il V tempo del Requiem è naturalmente modellato sul Dies irae. La mente bicamerale del secondo movimento allude al controverso libro di Julian Jaynes. Al colore verde che chiude il Requiem non sarà forse estraneo un vago ricordo del Libro tibetano dei morti.
Published November 5, 2020
© 2020 Fabio Pusterla per Eventi letterari Monte Verità
Requiem for a Lombard Nursing Home
Written in Italian by Fabio Pusterla
Translated into English by Todd Portnowitz
I
If the light came in through here if a passer-by
in this world could pluck one of its rays
slipping through the horizontal bars the blades
of these encrusted shutters that exile us
it would give the yellow glow a noxious heat,
as if filtered through a jug of urine; an instant later,
with a muted little thundering from above,
down would come the sound of a woman bleating,
a single word, repeated and yet garbled
a futile prayer a rasp or distant spasm
a single, lucid word, stretching itself
into a cry, incomprehensible, unheeded
except, perhaps, by the idle passer-by,
who stops, confused, disturbed. Oh, carry it with you,
you who walk this world, that woman’s bleating,
the shadow of us here expiring, beyond the invisible river.
II
Names, if I ever had a name
that name has sunk,
call me Ishmael
call me wrecked Magellan.
Ships with missing sails,
pitching in the sargasso sea
that is my cramped atlantic mind
rot spreading where the eels
come languidly to die and reproduce,
where leptocephali and sparks of thoughts
dart from algae-covered neurons,
only to sink between the cracks or transform
into schools of blind ideas, good for frying.
My mind! A palace of unremembering
engulfed in forest shadow
a vast and squandered fortune.
O dried-up clot of houses abandoned
after the pestilence, surrounded now
by brambles. From this incurable ruin,
from the deck of my ghost ship,
I watch you in your arrogance
in your resilient hypocrisy,
dear relatives, escaping impatient
dear avid serpents, strapped with work;
first you abandon your old, then, indignant,
you lament their wretched languor
their aimless adventurous journey,
rip currents or calm seas.
Damaged goods obsolete machines
burdens, that’s what we are to you,
you later iterations. And so be it.
Doctor, keep it
quiet, here beside me, now, I must man
the helm with skill in these dark waters,
hostile and unknown; and you, caregivers,
nurses: haul up your hearts, lower your good will.
I’m searching for the passage, doctor, the conduit
that links the brain’s two hemispheres,
the clarity of a nightmare or a vision.
I’m searching in ice and in fire, in my bicameral
mind or in shit,
I’m searching and hoping
for every path to stray, for time
to lose its beat collapse into the indistinct
eternal. Don’t fool yourselves, worms,
this is not hell.
Hell is yours alone, we’re weighing anchor
and we ask no peace
or pity. Don’t you see? We’re singing
To have a friend
is to never die. An ancient aria
in the history of pariahs,
an ancient song.
III
The woman next door is resting,
her monsters are at rest. The one who roams
all day over shards of stone
among the remnants of a blaze,
the other who grazes and grazes
on bitter blades and bleats and moans,
and still a third, an enchantress with dead wings,
all of them, now, are sleeping
their chemical sleep
bodies rocking on a precarious
Pacific ocean. The doors
to their rooms are closed now,
the blue light pulsing mutely
in the halls of the void, like a beacon
for ships that never pass. I’m on watch,
sleepless, from my shore. I watch and think
nothing and, thinking nothing, protect these mythical
figures of the night and of pain.
IV
Dump trucks in the lot,
warming their engines:
green tarps in their beds
dumbstruck drivers bodies
starstruck by the road ahead.
Space for everyone: how they gleam,
the facts that cancel out the past or lighten
the load of blame and nostalgia.
Everyone here has their own mistakes to absolve,
a canasta hand of lost faces and regrets.
If music can arise even
in the latrines of a concentration camp,
music for the end of times.
If music can arise from shrieking
and slip free of time: so can we.
In this vast abyss of birds
in this faintest trace of green:
between the dull night and the impassable day
the frenzy of whistles, of flights,
the silver chiming, the ceaselessness.
Dear life we love, even down here,
you stir us and you call us, already distant,
you unite us and deny us, scoffing. You propel us:
if it’s all still so vivid for us,
despite everyone, all blameless in every way.
The terrorizing soldiers lift their gaze
tracing the blackbirds’ bickering
the swallows’ vertiginous whirling.
A robin leaps between the coffins:
all who pass pass into oblivion.
No one mourns the meadow grass
the bellflower closes and droops:
what a festive life, a joyous life this is.
V
A chamomile repulsion
The glimmer of hot urine
The spark of a rebellion
If I stand atop my bed
And beat upon my breast
With prideful bitterness
If I lift up my diaper
And naked on the covers
Take hold of my member
And piss upon the world
Obscenely I unfurl
Into my dancing whirl
Of desperate gibes
Of trampled on rights
Like an old man, mindless
An old man, demented
Old man, trembling
Old man, lamenting
Old man who won’t cede
Old man who can’t see
Old man who doesn’t believe
In your creed most vile
In your savior money pile
In your conniving smile
Opiates don’t sedate
Bed straps don’t restrain
The old do not forget
The old, impotent
But unrepentant
The old, content
With little and with much
With wine and prime cuts
With grappa and a belch
Dreadful revolt
Word, take flight,
With a scowl and write
Yourself on these windows,
in these darkening days
In this hour, still plagued
By the lucidity of pain
The bare evidence of sin
The nostalgia for love
Courage in the face of disgust
The memory of this struggle
The hope for one last push
Springtime, glimmering
Leaflet, multiplying
Trunks, leaves photosynthesizing
Dances flowers blackbirds chirping
The lost ones now risking
The fearful abstaining
This is the final insurrection
Final turn, final celebration
The final day of glory
Toward the time we cease to mean
Outside rhythm, outside history
Into green with green amid the green.
Note
Inspired by the tragic events of spring 2020. The poem includes nods to the following sources: in section II, Franco Fortini’s rewriting of the left-wing anthem “The Internationale”; in section IV and elsewhere, Oliver Messiaen’s Quatuor pour la fin du temps, composed in the Stalag VIII-A in Görlitz. Again in section IV, verse 25 and the closing verse echo and recycle the words of Merkel, Father Zosima’s brother in Karamazov. The Requiem’s fifth section is modeled after the Dies irae. The “bicameral mind,” in the second section, alludes to Julian Jaynes’s controversial book. The references to the color green that end the Requiem are in many ways owed to the Tibetan Book of the Dead.
Published November 5, 2020
© Specimen 2020
Requiem für ein lombardisches Altenheim
Written in Italian by Fabio Pusterla
Translated into German by Michaela Heissenberger
I
Wenn Licht hinausdränge von hier, wenn ein Passant
draußen in der Welt den Schimmer bemerkte
zwischen Gitterstäben, den Lamellen
der verkrusteten Jalousien unseres Exils,
wäre es ein Schein, so gelb und warm und morbid
wie gefiltert durch einen Becher Urin
und gleich darauf, wie kleiner leiser Donner,
ertönte von oben ein Laut, das Wimmern einer Frau,
ein einziges Wort, wiederholt, doch unerklärlich
sinnloses Flehen oder Stöhnen, fernes Ächzen,
ein einziges klares Wort, anhaltende
Klage, unverständlich und ungehört,
wenn nicht vom zerstreuten Passanten, der kurz
stehenbleibt, bestürzt und verwirrt. Trag du,
Wanderer, dieses Wimmern in die Welt, diesen Schatten
von uns Elenden jenseits des unsichtbaren Flusses.
II
Namen, wenn ich einen Namen hatte,
ist der untergegangen,
nennt mich Ismael
nennt mich den irren Magellan.
Schiff mit verlorenen Segeln,
stampfe ich in der Sargassosee
meines atlantischen, wimmelnden Geistes,
ausgedehnte Verwesung, wo Aale erschöpft
zusammenkommen zu Reproduktion und Tod
und aus veralgten Neuronen hektisch Weidenblattlarven
schlüpfen oder Gedankenimpulse,
hinabsteigen in die Tiefe oder sich verwandeln
in Schwärme von Fritto misto und Ideen für die Tonne.
Mein Geist! Ein Palast des Vergessens,
verschlungen von Waldes Schatten,
verloren aller Reichtum.
Ein verdorrtes Häufchen verlassener Häuser
nach einer Pestilenz, längst überwuchert
von Gestrüpp. Von diesem unheilbaren Ruin,
vom Achterdeck meines Geisterschiffs aus
betrachte ich euch in eurem Dünkel
eurer resilienten Heuchelei
liebe Angehörige Ungehörige Ungeduldige
liebe Unbeteiligte, emsige, geschäftige:
Erst lasst ihr sie zurück, dann beweint ihr
empört ihr elendes Verenden
ihre sinnlos abenteuerliche Reise
ihr Abdriften in ewige Flaute.
Verdorbene Ware, obsolete Maschinen,
leerer Ballast sind wir
für euch frischeres Fleisch. Dann sei es so.
Herr Doktor, bleiben Sie
schön hier, still jetzt, ich muss
das Ruder gerade halten in diesem dunklen Wasser
so unbekannt und feindlich; ihr Betreuerinnen
und Pfleger: luvt an die Herzen, holt ein das Bemühen.
Ich suche die Passage, Doktor, den Kanal
zwischen des Geistes Hemisphären,
eine Klarheit, Albtraum oder Vision.
Ich suche in Eis und Feuer, im bikameralen
Geist und in der Scheiße,
ich suche und hoffe,
dass jede Route verloren gehe, die Zeit
aus dem Rhythmus gerate in unbestimmte
Ewigkeit. Täuscht euch nicht, Gewürm,
dies ist nicht die Hölle.
Die Hölle gehört euch allein, wir legen ab
und bitten nicht um Frieden
noch Gnade. Versteht ihr nicht? Wir singen
Wer hat Genossen,
wird sterben nicht. Eine alte Arie
aus der Geschichte der Parias,
ein altes Lied.
III
Es ruht die Frau im Zimmer nebenan
es ruhen ihre Monster. Die eine irrt
den ganzen Tag über die steinernen Krallen
ausgebrannten Geländes,
die andere weidet und weidet
das Gras ihres Unglücks und jammert und wimmert
und selbst die Dritte, Zauberin mit toten Flügeln,
sie alle schlafen jetzt
ihren chemischen Schlaf
bloße Körper, schaukelnd in einem vorläufig
Pazifischen Ozean. Die Türen
sind geschlossen nun der Zimmer,
das blaue Licht pulsiert ganz still
in den Korridoren der Leere, ein Leuchtturm
für Schiffe, die nicht kommen. Ich wache
schlaflos an meinem Ufer. Wache und denke nichts,
um nichtdenkend zu schützen diese sanften
Figuren der Nacht und des Schmerzes.
IV
Lastwagen auf dem Parkplatz
mit warmlaufenden Motoren:
grüne Planen um die Pritschen
die Fahrer entgeisterte Körper
erstarrt im Warten auf die Abfahrt.
Hier ist Platz für alle: klar die Botschaft,
die Vergangenheit tilgt oder doch mildert
die Last von Schuld und Nostalgie.
Jeder hier büßt eigene Fehler, ein
Canasta verlorener Gesichter und Chancen.
Wenn Musik sogar entstehen kann
in den Latrinen eines Lagers,
Musik für das Ende der Zeit.
Wenn Musik entstehen kann aus dem Knirschen
der Zeit und diese überwinden: dann auch wir.
In diesem weiten Abgrund der Vögel
im bloß angedeuteten Grün:
zwischen dunkler Nacht und unnützem Tag
die Raserei von Pfiffen, Flattern,
Silberglöckchen, Durcheinander.
Liebes Leben, das wir auch hier unten lieben,
du überraschst uns mit Rufen von weither,
du bindest uns und schwindest spöttisch. Du treibst uns:
Wenn alles noch so lebendig ist für uns
vor allen, die nicht Schuld tragen an allem.
Hoch heben die Soldaten gequält
ihre Augen zu den Sturzflügen der Amseln
den schwindelnden Runden der Schwalben.
Ein Rotkehlchen hüpft auf den Särgen:
Wer hier abreist, reist ins Vergessen.
Keiner weint um das Gras der Wiesen
die Glockenblume schließt sich und verfällt:
Das Leben ist ja so heiter und fröhlich.
V
Widerwärtig schmeckt Kamille
Urinwarm glitzert die Bazille
Rebellen, stürmt nun die Bastille
Wenn ich mich im Bett hochziehe
Auf die Brust schlag unter Mühe
Stolz die Windel mir ausziehe
Und das Ding als Fahne hisse
Nackt auf meinem Federkissen
Auf die Welt im Ganzen pisse
Meinen Stock im Kreise schwinge
Und obszön die Hüfte swinge
Lästerliche Lieder singe
Mit dem Hohn der Verzweiflung
Mit dem Recht der Entrechtung
Mit des Alters Ereiferung
Des alten Dementen
Des alten Renitenten
Des alten Patienten
Des Alten, der nicht nachgibt
Des Alten, der nicht wahrnimmt
Des Alten, der nicht ernst nimmt
Eure muffigen Binsen
Eure schäbigen Zinsen
Euer hämisches Grinsen
Opiate können nichts mehr bessern
Riemen können uns nicht fesseln
Wir Alten wollen nicht vergessen
Wir alten Impotenten
Noch immer Insolenten
Mit unseren kleinen Renten
Zufrieden mit so wenig
Mit Wein und Speck schon selig
Schnaps rülpsender König
Des Aufstands wilde Pratze
Mit Worten euch nun kratze
Des Horrors rohe Fratze
Verzerre diese Fenster
An Tagen, die so finster
In Stunden der Gespenster
Die Klarsicht unseres Schmerzes
Die Botschaft dieses Märzes
Die Sehnsucht unseres Herzens
Der Mut in solchem Grauen
Der Schmerz, dies anzuschauen
Der letzten Kraft vertrauend
Frühling, sacht bis glitzernd schrill
Blättchen, zart und fein wie Tüll
Bäume, Blätter, Chlorophyll
Tanz und Blumen, Trinkgelage
Wer verloren ist, kann wagen
Wer noch Angst hat, muss nichts sagen
Dies ist der letzte unsrer Kämpfe
Letztes Fest und letzte Tänze
Letzter Tag im letzten Glanze
Bis die Zeit sich selbst verliert
Rhythmus schwindet, evaporiert
Ins Grün, das Grün inmitten des Grüns.
Anmerkung
Inspiriert durch die tragischen Geschehnisse im Frühling 2020. Im Text finden sich verschiedene Anklänge: In II zwei Verse aus Franco Fortinis italienischer Neudichtung der Internationale, in IV und anderswo Hinweise auf Olivier Messiaens Quatuor pour la fin du temps (Quartett für das Ende der Zeit), das im Stalag VIII-A in Görlitz komponiert wurde. Ebenfalls in IV wird in Vers 25 und im letzten Vers frei bzw. wörtlich Markel zitiert, der Bruder des Starez Zosima in Die Brüder Karamasow (Übersetzung von Hermann Röhl). Der V. Satz dieses Requiem ist natürlich dem Dies irae nachempfunden. Der bikamerale Geist in II spielt auf Julian Jaynes‘ kontroverses Buch an. Im Grün, das das Requiem beschließt, hallt eine ferne Erinnerung an das Tibetische Totenbuch wider.
Published November 5, 2020
© Michaela Heissenberg 2020
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