Zina
Lunedì 21 maggio 1990
Le otto di sera

I
Da quando si è piazzato al bancone

Da quando si è piazzato al bancone, lo sconosciuto sembra volermi dire chissà cosa e io, ancora adesso, molte delle cose che frullano per la testa agli uomini preferisco non saperle. Quando mi avvicino fa per aprire bocca, ma non appena vede che mi allontano ci rinuncia. E io evito di passargli accanto per non dover sentire cosa vuole dirmi. Vado e vengo dietro al bancone ma ogni volta che stappo una bottiglia per un cliente mi domando se gli sono passata troppo vicino. O se gli sono abbastanza lontana da riuscire a non sentire. Per sciogliere la tensione guardo l’orologio che ho al polso. Sono le otto. Stappo un’altra bottiglia e la metto davanti a un altro cliente che neanche me l’ha chiesta. Ma a che serve? Non sarà questo a trasformare magicamente in acqua le parole che ha in bocca. Non renderà meno insistenti le sue occhiate penetranti né mi farà abbassare la guardia. Alla fine, però, mentre gli passo davanti, si appoggia al bancone e, giocherellando con il bicchiere, in mezzo al casino del bar, alla musica alta e al baccano del flipper, mi domanda se mi piacciono le rose. Non gli rispondo, non voglio problemi. Sono fatta così. Ho altro a cui pensare. Ho imparato a nascondere quel che penso. I miei pensieri, me li tengo per me. Per i giorni di bel tempo. E poi non lo so se le rose mi piacciono oppure no. Mi allontano di nuovo, senza badare né a lui né alla sua domanda. Non sono una con cui si può attaccar bottone così, tanto per fare. I clienti sono occupati a bere e a parlare della siccità. Della sua domanda non importa niente a nessuno. A chi vuoi che importino le rose in una stagione di gran secco? Anche se siamo a maggio lo sconosciuto indossa una jellaba pesante, beige a righe nere. Qui, nel bel mezzo del bar, sembra spuntato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Porta occhiali scuri che non riescono a nascondere i segni del vaiolo che gli ha scavato la faccia. Continua a seguire con lo sguardo i miei movimenti aspettando che gli passi davanti per riprendere il discorso, ma io lì non ci vado. Non mi avvicino. Mentre aspetta giocherella con il bicchiere. E io conto quante parole potrebbe dirmi se mi avvicinassi. Solo quattro. Come prima: “Ti piacciono le rose?” Non sembra che aspetti una risposta. È venuto per parlare, non per ascoltare. Sì, lo capisco da come muove le dita mentre tormenta il bicchiere d’acqua. E da quella specie di sorriso che gli è comparso sulle labbra. Ecco, gli passo davanti: “Giù al sud, in questo periodo dell’anno c’è la festa delle rose, le ragazze ci vanno per trovare marito.” Ho rallentato il passo, questa volta, per sentire tutta la frase. Come se il gioco cominciasse a stuzzicarmi. Che faccio? Passerò una terza, una quarta, una quinta volta per sentire tutte le scemenze di quest’uomo? Io sono già sposata e non mi importa un fico secco se esiste un luogo in cui ogni anno le donne sole trovano marito. Le parole dello sconosciuto non contano più delle ciance che fanno gli ubriachi ogni sera in ogni bar. C’è un becchino che parla solo di quanti morti ha seppellito durante il giorno. E un falegname che tutte le notti sogna di scappare con un armadio e di raggiungere il bosco da cui viene il legno che lavora. Quando si sta dietro il bancone del Bar della Cicogna ci si abitua a tutte le baggianate che ti bussano alla porta del cervello. Come succede a mia sorella Khatima, che sta all’altro capo del bancone, davanti alla cassa. Lei parla e gesticola e ride senza badare a cosa dice questo o quel cliente (non si mette una rosa rossa tra i capelli come faceva Madame Jeannot, la vecchia proprietaria del bar, però di tanto in tanto offre un bicchiere agli avventori. Magari Madame Jeannot si faceva mandare le rose dalla festa di cui parla lo sconosciuto, una festa che non so nemmeno dove si tiene). Io non sono come lei. Diffido di chiunque si interessi a me, tanto o poco che sia. Vedendo che tira fuori di tasca un foglietto e che lo posa sul bancone, questa volta mi avvicino. Lo guardo, quel foglietto, ma non mi dà nessun indizio. Lo sconosciuto si guarda intorno, stavolta, come se stesse per rivelare qualcosa che non si può dire. Ha la faccia di uno che non sa ridere. Lineamenti che non sanno scherzare. Gli metto davanti una bottiglia e mi fa: “Offri tu o offro io?” Si guarda di nuovo intorno, più volte. Né l’una né l’altra, direi. Agli uomini piacciono le donne che bevono, ma io non bevo. Neanche mia sorella Khatima beve. Come se mi leggesse nel pensiero adesso sta ridendo. Gli vedo luccicare in bocca dei denti d’oro e questa cosa rende ancora più strana la sua presenza qui. Il foglietto è ancora dove lo ha appoggiato. Perciò stappo la bottiglia e, prima di andarmene, sento che mi dice: “In cima alla montagna che dà sul paesino in cui si svolgono i chiassosi festival nuziali, c’è una casba dove vanno le vedove e le donne che hanno perso il marito durante i colpi di stato.” Mi ricordo di un vecchio sogno. È una sorta di illuminazione. E capisco. Capisco prima che me lo sussurri all’orecchio. E d’un tratto mi sale l’agitazione. D’un tratto afferro il bigliettino. D’un tratto mi giro verso mia sorella Khatima che sta all’altro capo del bancone. E d’un tratto lo sconosciuto torna a sussurrarmi che ho giusto il tempo di prendere l’autobus in arrivo da Fes alle nove. Un uomo sulla cinquantina che qui al bar non si è mai visto prima di stasera. Che è rimasto al bancone soltanto quanto basta per pronunciare quelle scarne frasi che mi hanno di nuovo scombinato le idee. Magari anche un po’ di più. Se ne sta ancora lì, in piedi, a guardarmi. Cosa aspetta? Di vedermi saltare al di là del bancone per correre a prendere l’autobus delle nove? Mi infilo in cucina e apro il bigliettino. Riconosco la scrittura di ‘Aziz. Cosa devo farne? Ingoiarla come se fosse una pillola di sciocchezze e mandarla giù con un sorso d’acqua? Guardo l’orologio.

Credevo di aver dimenticato. Mi ero rassegnata. Me ne ero fatta una ragione. Mi ero chetata. E avevo dimenticato. Il pensiero di rimettermi a cercarlo si era assopito, era svanito, si era spento. (Sono quattro anni che non mi allontano dal Bar della Cicogna e dall’appartamento al piano di sopra. Da quando Madame Jeannot è morta e ha lasciato il bar a mia sorella Khatima. La quale, d’altronde, si è presa cura di lei ben più della sua famiglia che veniva ogni sei mesi dalla Francia per vedere se la vecchia si era decisa a tirare le cuoia. E lei, la vecchia, invece di lasciare a loro il bar e l’appartamento, ha intestato tutto a Khatima, che l’ha accudita e poi sepolta nella tomba che avevano comprato insieme durante i suoi ultimi giorni. Ci siamo date da fare per mandare avanti il bar. Giorno dopo giorno sempre gli stessi problemi con gli ubriaconi, gli sbirri, la polizia segreta e i militari. Dalle sette del mattino fino a mezzanotte). Ah, ne è passato di tempo! Tutti questi anni? No, l’idea di ritrovarlo non mi ha mai abbandonata. È un pensiero ancora vivo, ancora caparbio come quando avevo sedici anni, all’inizio della mia lunga odissea alla ricerca di ‘Aziz. Ho sempre pensato che non è morto, la terra non può averlo inghiottito, un giorno lo troverò. E penso di non avere nulla da perdere nemmeno questa volta. Avevo sedici anni quando ho cominciato a cercarlo. Adesso ne ho trentaquattro e continuerò ancora e ancora, fino ai sessanta, ai settanta e anche oltre. Penso che alla fine lo troverò. Mi piace vedermi sotto questa luce. Mi piace vedermi, un giorno o l’altro, vittoriosa. È una sensazione che mi colma di una gioia immensa. Una volta, dopo aver ricevuto una telefonata di un tizio che diceva di sapere dove si trovava ‘Aziz, sono andata fino alla foresta di Ma‘mora. Ma era solo l’ennesima fregatura che andava a sommarsi a tutte quelle che l’avevano preceduta. Non mi sono abbattuta né arresa. Le notizie infondate danno senso al tempo. Tengono vivo il fuoco. Mantengono accesa la fiamma del ricordo, sono la torcia che tieni in mano mentre avanzi. Quando mi hanno detto di Ma‘mora non ho esitato nemmeno per un secondo, e non lo farò nemmeno adesso. Ho giusto il tempo di prendere l’autobus che arriva da Fes alle nove, esattamente come ha detto lo sconosciuto. Torno dietro al bancone senza aver deciso se devo dirlo a mia sorella Khatima. Non ho un motivo valido per dirglielo né per non dirglielo. Le altre volte non l’ho fatto. E intanto lo sconosciuto se n’è andato senza aver toccato la bottiglia.