Non formiamo una comunità, noi che ce ne siamo andati, noi che siamo rimasti all’estero. Non ci somigliamo e non abbiamo un legame speciale. Quando ci incontriamo, e non succede spesso, ci separiamo in fretta e ognuno va per la sua strada dicendo con un gesto della mano che ci sentiremo presto al telefono. Perché ormai evitiamo di rivolgerci l’un l’altro falsi rimproveri. Ci separiamo e ognuno va rapido per la sua strada, contento di essersi sganciato da un momento pesante, da un intralcio al fluire di una vita che scorre come un placido fiume. Un momento che diventa ancora più pesante e più inutile quando a riunirci è un evento legato al Libano – che si tratti di un film, di un incontro su Beirut o qualcosa di simile – a cui partecipiamo per conformismo, per solidarietà o per non sentirci in colpa. Prima facevamo come gli altri immigrati, ci trattenevamo un po’ all’ingresso e nei corridoi, e poi andavamo in un caffè nei dintorni per raccontarci di noi e dell’attualità del Paese, a volte per discutere animatamente.

Adesso non lo facciamo più.

Non siamo e non siamo mai stati una comunità. Non ci piace somigliarci né ci piacciono le cose che ce lo fanno notare. Nelle occasioni pubbliche a cui accettiamo di partecipare, sempre più spesso preferiamo confonderci in mezzo agli altri. Adesso tendiamo a scivolare verso qualche faccia nota nel gruppetto di stranieri presenti, invece di stare con le persone che conosciamo già dal Libano. Con i nostri figli è lo stesso: li lasciamo scegliere dove andare e chi frequentare senza intrometterci. Però ci facciamo sospettosi e apprensivi se per caso hanno a che fare con qualche libanese, un caso che potrebbe farli sentire legati a quella terra alla quale noi non sappiamo più cosa ci lega. Non vogliamo che soffrano le pene di un amore fallimentare che ci ha tanto tormentato o che ereditino una tara genetica che non si può curare e, presto o tardi, ti impedisce di vivere appieno.

È passato molto tempo da quando abbiamo ripiegato i manifesti e le fotografie che, dopo ripetuti tentennamenti, ci siamo decisi a staccare dalle pareti di casa. Come se rimandassimo un funerale. Come se ci vergognassimo di quella nostra perdita, come se portassimo una colpa antica e ne ritardassimo l’espiazione. Ecco la colorata Piazza dei Martiri degli anni Sessanta, ecco il lungomare di Raouché con il suo faraglione che, per eccesso di patriottismo, pensavamo fosse unico al mondo. Non li abbiamo ancora stracciati, per precauzione, ma li abbiamo riposti in qualche cassetto che non è a portata di mano, pronti per un’occasione imprecisata che adesso e in un futuro prossimo ci è difficile immaginare, e nel farlo ci siamo ripromessi di disfarcene perché le nostre case, qui, sono piccole. Proprio così, continueremo a raccontarci che li avremmo già buttati, se non fosse per quelle soffitte spaziose dove accumuliamo quel che non serve più, e a dirci che un bel giorno, quando arriverà il momento della nostra morte, i nostri figli o i nostri nipoti non capiranno come mai ci sono quei manifesti e quelle fotografie, né il motivo per cui abbiamo conservato il vecchio biglietto aereo con cui siamo arrivati qui. Di fatto, il nostro Paese non somiglia più a quei cartoncini ingialliti con gli angoli smangiucchiati… E invece di augurarci l’oblio, la presa di distanza e la sicurezza del tempo che scorre, noi che quel Paese lo abbiamo abbandonato ci siamo incamminati lungo la via di ripetute migrazioni assieme alle altre creature del Signore portandoci dietro una specie di rancore. Una specie di sete di vendetta per qualcosa o per un tempo in cui non sappiamo cosa ci è successo, come sono andate le cose che ci hanno portato fin qui. Questa cosa misteriosa, sempre più stolta e perversa, che continua a degenerare ma non ha mai fondo, che ci lascia in un limbo tra l’impossibile oblio e un rigetto che addensa nuvolaglie d’abbandono sulla Terra che non è né mai sarà nostra. Questo filo di sangue che non tiene insieme e non separa. Un disco rotto che non smette di cantare la sua brutta canzone. Come se le disgrazie fossero un dono e le esplosioni una grazia.

Prima che ci potessimo concedere una sosta nel nostro peregrinare da un luogo all’altro, legioni di migranti come noi ci hanno seguito arrivando da altri luoghi e da altre guerre. Finché, un gruppo dopo l’altro, ci hanno spinto sempre più lontano dal nostro e dal loro paese. È una sorta di forza autopropulsiva. Una forza che è diventata legge di natura nell’intricato dedalo di popoli che, come noi, detestano il loro cielo tanto da morire affogati sui barconi degli scafisti. Le nostre case sono diventate più vicine alle loro tende, li vediamo da mattina a sera, nel caldo o nella tempesta, un dettaglio di uno spettacolo abituale. Tanto, gli eroi dei nostri racconti popolari ci avevano convinto che è sempre possibile tornare, nessuno sa quando ma chissà, forse un giorno. 

Adesso, tra noi, non ci sono più racconti che parlano di possibilità.

Una piccola dose di rancore che non ti annienta ma non ti dà tregua. Come un leggero mal di denti che non smette mai. Una piccola dose di invidia, qualcosa che equivale a tradire le madri o a rinnegare i santi patroni.

È molto tempo ormai che non formiamo una comunità, né visti da vicino né visti da lontano. Tra di noi non ci sono pazzi o eroi pronti al sacrificio. Quello che li accomuna ci è ormai lontano e non ci fa sentire uniti a loro. Quelli che un tempo, in Libano, erano i nostri amici e i nostri compagni muoiono troppo in fretta e, visto che su Facebook spuntano da ogni dove persone pronte a consolare chiunque, ci sentiamo sollevati dal compito di portare conforto. Nessuno sentirà la nostra mancanza, si scorderanno di noi e si consoleranno con la narrazione delle tragedie nazionali e i video musicali che vengono sventagliati all’indomani dell’esplosione, di ogni esplosione. Una fabbrica di disastri a ripetizione che fa brillare fin troppe stelle.

Adesso quando capita di ricevere una telefonata, ci sembra di essere colti alla sprovvista e siamo un po’ impacciati. Una volta, invece, ci sentivamo anche solo per chiedere: “Cosa ti posso portare da casa? Un po’ di kishk? Di zaatar? Di baklawa?”. Ormai non ce n’è più bisogno. È inutile trascinarsi in aeroporto borse piene di cose che si trovano anche qui, fresche, abbondanti e a buon mercato. Perché comprare il burghul, il grano spezzato turco, che sul mercato libanese viene importato esattamente come qui? Siamo noi il nostro burghul, siamo noi il nostro grano, i nostri porti sono pieni di verdure e spighe dall’inconfondibile sapore di nitrato…

Cosa avrà da dire l’amico al telefono? Come arriveranno le sue parole? Di certo non con la voce, che è sparita dalle chiamate per diffondersi su WhatsApp. WhatsApp non ti coglie di sorpresa e non ti mette nell’imbarazzo di dover rispondere, anzi ti dà il tempo di prepararti le frasi giuste.

Nonostante tutto, nonostante tutto questo, riempiamo i voli e le compagnie aeree non sanno bene come gestire gli overbooking.

Di fatto, i fondamenti della vita terrena e le condizioni basilari per respirare non ci sono. Eppure vogliamo passare l’estate laggiù! Nonostante il virus, le esplosioni, la mancanza di medicine, di benzina e quant’altro… Senza programmare gite al mare, in montagna o al fiume. C’è anche chi vuole tornare definitivamente, a ogni costo, ignorando le opinioni a suo avviso sconsiderate di centinaia e centinaia di esperti dei nuovi flussi migratori. Non c’è niente di logico in tutto questo, forse perché ce ne siamo andati da tempo ma tuttora non ci è chiaro come è successo. Forse perché siamo sensibili agli schiaffi della nostalgia nelle canzoni che sono un inno alla resistenza, alla resilienza, alla perseveranza, a risorgere dalle proprie ceneri come la fenice. Parole da melodramma in stile fratelli Rahbani che restano dentro a distanza di anni e anni.

In passato, quando scoprivamo che qualcuno aveva intenzione di tornare, ci sentivamo traditi e abbandonati. La cosa ci faceva imbestialire, ma poi finivamo per arrenderci e ci sforzavamo di augurargli buona fortuna. Ci facevamo carico del fallimento di questa gente che decideva di tornare dall’oggi al domani, scontavamo in anticipo una dose della sicura delusione che li avrebbe riportati qui. Cercando di non dar peso alle cose che gli invidiavamo, provando gelosia per quelle gioie che a noi erano precluse: vedere le stagioni che si susseguono, i figli che crescono, le vicine che invecchiano, i genitori che ci lasciano, i nuovi palazzi, ponti, caffè, curve delle strade, persino i nomi dei nuovi leader politici. Tutto questo è il passato. Adesso questo tarlo non ci rode più, non proviamo più questo genere di sentimenti. Ci auguriamo solo che chi torna nei luoghi del cuore, per l’estate o in via definitiva, ci faccia sapere cosa ha in mente di fare una volta messo piede fuori dall’aeroporto internazionale Rafic Hariri. Semplicemente che cosa combinerà laggiù.

Non so perché tutte le parole che esprimono amore per il paese d’origine cadono nel vuoto prima di arrivare al mio cuore. Cadono prima di penetrare la membrana protettiva. Sarà un disturbo. Un doloroso squilibrio per il quale non c’è cura. Che cosa si è spezzato dentro di me? Che cosa ha causato questa malformazione? Questa carenza, questo inaridimento, questo rigetto?

Vorrei abbandonarmi alla morte. Sentirmi soffocare di parole che, come un fluido, mi risalgono nei polmoni e fino alla gola. La morte è sacrosanta. Non mi sentirei in colpa. Un attimo di calma prima del pianto delle prefiche e delle grida imploranti sopra i corpi inermi.

Nemmeno Dio mi accoglierebbe perché ho rimesso alla sua giustizia quel che non ho speranza di ottenere tramite la giustizia terrena. Ho detto ai malfattori: “Vi rimetto alla vostra coscienza! E alla giustizia del cielo.” Ma il cielo ha detto: “Via di qua!”.

Mi tratterrei un poco in questo dolce limbo. Non c’è altro posto per gente che, come me, non ha fede. Mi lascerei andare al desiderio travolgente di morte senza voltarmi indietro, tanto più che i racconti dei cantastorie garantiscono che, se mi girassi, mi trasformerei in una statua di sale. Si avvererebbe la profezia: non c’è speranza per chi lascia Sodoma e Gomorra e poi si guarda indietro.

Sto camminando sul lungofiume vicino al mercato rionale. I poliziotti stanno sgombrando le tende di plastica occupate da migranti di ogni provenienza. Ci sono alcuni bambini che dormono e non si svegliano nemmeno quando le mamme li scuotono. Niente, nessun’ordinanza, farà ritornare questi popoli al loro paese d’origine. I loro poeti non scriveranno versi d’amore per la patria, versi di nostalgia per il ritorno ai verdi prati della giovinezza. Per allontanarsi da quella terra madre, questi popoli hanno sacrificato tutto quel che gli restava. Forse gli somiglio. Anche se ho la fortuna di avere un tetto sopra la testa, forse sotto sotto mi auguro di andarmene assieme a loro. Lo so che non dovrei, ma questa casa non è mia, queste quattro mura non diventeranno mie un domani. Non le lascerò in eredità ai miei figli.

Sono diventata così. Adesso mi conformo di più alle norme di questo paese. Mi arrabbio di meno per tutte le volte in cui devo correggere la pronuncia del mio nome. Mi lamento di meno di questo cielo grigio, basso e costantemente freddo. Mi risparmio le mie critiche sagaci al sistema che regola la nostra vita qui. Anzi sono meno comprensiva verso le violazioni degli “stranieri”, meno tollerante quando infrangono la legge, meno disposta ad accettare le critiche dei libanesi su quanto fanno schifo la democrazia e la classe politica al governo. Direi che sono diventata quasi conservatrice, ai limiti di un malcelato razzismo. Come ho fatto a diventare così?

Come ho fatto ad accettare che mia nipote abbia smesso di studiare l’arabo? A lasciar correre se qualcuno francesizza il nome di suo figlio, da ‘Ali ad Alain, da Ja‘far a Jeff. A dire che la primavera italiana è più bella della nostra, che non esiste più? Che le pesche francesi sono più buone di quelle di Hammana? Come ho fatto a mandare giù che mio figlio, tifoso sfegatato della nazionale francese, si metta a ridere quando gli chiedo cosa farebbe se la sua nazionale giocasse contro quella libanese? Come sono arrivata a dire, quando mi arrabbio, che è tutta colpa loro e che io non c’entro niente? È una piccola rivincita nei confronti di chi mi ha cacciato dal Paese, di tutti loro, e finisco per considerare tutto il popolo libanese, nessuno escluso, responsabile di quello che succede.

Questo distacco, questo espellere il veleno, i veleni dell’amore, non mi lascia respirare a pieni polmoni.

Resto incollata alla televisione libanese per non perdermi il minimo dettaglio che alimenta il mio rancore. Mia figlia mi dice di smetterla di piangere. “Fai il biglietto e vai a Beirut. Almeno puoi supervisionare di persona i lavori per sistemare l’appartamento semi-sventrato.” Ma io non lo voglio, quell’appartamento. È soltanto un investimento sbagliato e sconclusionato che voglio dimenticare come ho dimenticato tutti i muri che mi sono caduti addosso, per potermi raccontare, di tanto in tanto, che non me ne sono mai andata, che i miei incubi scorrazzano ancora laggiù e rimestano nelle acque torbide dell’amore.

In questo mio limbo, ero contenta di non trovarmi né da una parte né dall’altra. Ma questa città non ha pace come una vittima che esige sia pagato il prezzo del suo sangue, un’esigenza che sento anch’io, non c’è niente da fare. È un assedio senza fine.

Ogni mattina apro i siti internet delle compagnie aeree e poi li chiudo. Senza prenotare, senza comprare niente. Vediamo domani. Cosa diavolo vuoi vedere domani?!

Ogni mattina, quando apro la finestra di camera mia, mi sembra di vedere una strada libanese. Brucia in ogni sua materia. E il mio cuore brucia. Brucia e le ceneri non elargiscono nessun perdono.