Narratio est rei factae, aut ut factae, utilis ad persuadendum expositio.
– Quintiliano

Nel caso Kramer, il celebre avvocato Urusov ottenne l’assoluzione della sua cliente malgrado la confessione, l’evidente presenza del corpus delicti e addirittura malgrado una calza esanime estratta da una busta e adagiata come una nuvoletta sul tavolo dei corpi di reato. Dopo la lettura della sentenza assolutoria, accolta dagli applausi entusiasti della sala, la signora Kramer si avvicinò al suo fortunato avvocato e, invece della prevista gratitudine, il salvatore fu insignito di un sonoro ceffone. Lo schiaffo rese celebre un’insegnante di musica fino ad allora assolutamente sconosciuta e infervorò all’epoca più di una penna, ma è poco probabile che i dibattiti svoltisi sulla nostra stampa sulla liceità morale della difesa potessero esaurire una così spinosa questione. D’altronde è naturale. Giacché a difendere l’umanità si rischia ogni minuto di divenire alleati dell’illegalità, complici dell’immoralità, favoreggiatori del crimine, nemici della giustizia. Prendete la Kramer: aveva confessato il delitto, e poi salta fuori che il delitto non l’ha commesso. La sola colpa di Urusov consisteva nell’aver raccontato con parole sue la storia della Kramer. Che ne è stato dunque del fatto che avrebbe avuto luogo? Tutto il cosiddetto creato è mutevole e incorporeo. Oggi siete qui, vi togliete la forfora dalle spalle, ma domani dove sarete? Altro sono le parole. Nessuno saprà mai cosa fece realmente questa piccola signora, del resto che importanza ha? Ecco che Urusov racconta di come lei si sia sfilata il vestito dalla testa e i capelli si siano impigliati in un gancetto, e l’assoluzione diventa inevitabile. Di cosa lo si incolpa dunque? Nullum crimen, nulla poena sine lege! Non si può punire un atto non sanzionabile per legge nel momento in cui è stato compiuto. Un atto è una creazione del mondo. Immaginatevi, miei giovani amici, che non esista nulla. Assolutamente nulla. Né voi. Né io. Né quest’aula, non arieggiata dopo l’ultima lezione. Né questo mozzicone di gesso tra le mie dita, che poco fa strideva sulla lavagna lasciando cadere un rivolo farinoso. Né il tempo, che segue il corso del sole afferrando ognuno per mano, come a dire, preso, non mi scappi più, ti tengo al guinzaglio. Né la bufera di neve là fuori, sentite come ulula? Buio totale. Vuoto e tenebra, ecco le condizioni indispensabili per la creazione del mondo. E la corrente gelida, e gli scossoni come in un vagone che viaggia su un binario a scartamento ridotto. Che angoscia! Sembra che ci sia tutto per la creazione del mondo, visto che non c’è niente, eppure manca qualcosa. Una scintilla, forse. All’improvviso questo angosciante buio di Bashkiria viene dilaniato da una scintilla. Brilla per un attimo e si spegne. Poi un’altra, e un’altra ancora, come se qualcuno sfregasse dei fiammiferi, un essere primigenio, un bisavolo degli dèi, un dio erutta scintille, una specie di Perun. Sfrega fiammiferi e impreca, sono bagnati. A questo punto, come di solito succede nelle mitologie antiche, ingenue ma, ne converrete, alquanto commoventi, certo non paragonabili alla Trinità, da un suo orecchio o dall’anca o, perché no, dall’ombelico (in un buio simile comunque non si distinguerebbe), appare il suo dirimpettaio, il vicino vegliante, un Dio antagonista, viveur e discolo, in breve, Veles. Tossicchia per schiarirsi la voce, si gira e rigira, sbuffa, sospira e partorisce il tempo:

– Saranno quasi le sette. Stiamo attenti a non perdere la fermata! Allora Perun si strofina gli occhi, sbadiglia e separa con la parola la luce e il buio:

– Fra poco farà giorno.

Da quel momento la creazione della steppa innevata dietro il finestrino non si può più fermare. Il cielo si schiarisce. Perun, avvolto in una coperta, guarda il suo mondo ancora crepuscolare, informe, un’occhiata è sufficiente. Guarda giù: la fuga delle rotaie e il balenio delle traversine. Guarda su: ovunque ti giri i fili telegrafici dell’alba si tuffano come se un pennarello disegnasse onde. Gli basta pensare: villaggio, e immediatamente qualcosa nereggia tra la neve, colonne di fumo si alzano verso il cielo gelato. Sussurra: ci vorrebbe proprio un bel teuccio! ed ecco che bussano alla porta.

– Vi ho portato un tè caldo!

Il piattino è spaiato, troppo grande, il bicchiere tentenna, si rischia di ustionarsi le labbra.

– Il treno rallenta – commenta Perun guardando dal finestrino. Le dita che tengono una zolletta di zucchero si arrestano sopra il liquido bollente, a uno scambio il vagone sobbalza e il tè inzuppa per un attimo lo zucchero, una macchia marrone si allarga sul cubetto bianco.

– Čebyri – annuncia Veles leggendo la tabella della stazioncina.

– E dire che anche qua vive gente.

La piccola stazione rallenta e dopo uno scossone si immobilizza. Nelle volute di vapore un uomo a metà passa accanto al vagone, dietro di lui altre persone tagliate a metà dal finestrino corrono verso la coda del treno.

– C’è da immaginarsela la vita di questa gente – dice Perun sorseggiando il tè, soffia, scaccia il vapore come fosse crema di latte. – Dopotutto persino oltre il circolo polare c’è chi vive con la sua Paraša. E neanche troppo male. Ognuno vive dove gli tocca, e per il tempo assegnato, non è vero, Grigorij Vasil’evič?

La piccola stazione si mette in moto di nuovo e scivola via sul vetro del vagone.

– Ecco là tutta Čebyri – sospira Veles. – Vai poi a dimostrare a chicchessia che esiste! Fa niente, ancora un po’ di pazienza, due o tre annetti, e con tutto questo la chiudiamo. Io avrò diritto al massimo della pensione e al titolo di procuratore emerito, lei alla metà, e ci godremo un po’ di vita tranquilla.

E si riparte come prima. Lanciano una parolina qualsiasi, tipo: fiume!, e prontamente i vagoni, temendo di disubbidire, battono le loro suole di ferro su un ponte echeggiante, mentre più in basso una catenella di orme sulla neve fresca ha congiunto le rive.

Oppure:

– Bretelle!

E quelle si danno daffare tutte contente, sono lì che penzolano dalla cuccetta superiore, dandosi arie da bilanciere.

– Cristo che buco!

Un mondo bianco neonato si spande lentamente fino all’orizzonte ben tosato.

Finalmente Belebej. Arrivati.

Il cuccettista intasca il suo rublo di mancia e benedice dal predellino:

– Come si dice, non giudicate e non sarete giudicati! In bocca al lupo!

– Crepi! – il vagone si mette subito in marcia. Il treno va, il cuccettista sbatte la portiera.

Il marciapiede scricchiola sotto i tacchi. Durante la notte è caduta altra neve.

Dal gelo mattutino appare Svarog sgranocchiando una nuvoletta di vapore, è arrivato con lo stesso treno.

– Che notte, signori, mi fanno male tutte le ossa. E che compagno di viaggio mi è capitato! Non si è mai sentito uno russare così. Mi sa che manco i giornali ci trovi in questo buco.

L’udienza fuori sede si tiene nell’edificio del circolo dei mercanti, di fronte alla stazione.

L’aula è ben riscaldata, dalle doppie finestre si vede un campanile, sulle croci spalline di neve. L’ufficiale giudiziario spande odore di acqua di colonia. Su una tovaglia porpora una caraffa di cristallo scompone le piastrelle color insalata di una stufa olandese.

Prima di iniziare, Perun verifica che tutto sia al proprio posto: gli occhiali nell’astuccio, il lume acceso davanti alle icone, il ritratto del creatore dei regolamenti giudiziari ben dritto. Poi spacchetta da un giornale il suo campanello con il manico in osso.

Mentre l’ufficiale giudiziario farfuglia tra sé, Veles fa la punta alla matita con un rasoio, tempera la mina, soffia sulla polvere nera.

Svarog, magnanimo, allontana la lista dei giurati sottopostagli in caso di ricusa.

Perun mette i biglietti dentro una scatola, agita e ne estrae uno alla volta, legge ad alta voce sollevando le sopracciglia e scuotendo la testa come se pensasse: ma guarda che razza di nomi si ritrova la gente!

Prestano giuramento, e il coro mal accordato intona malinconicamente il “prometto e giuro”.

Il prete posa la croce sul Vangelo, lo avvolge nella sua pianeta e se ne va con l’involto sotto l’ascella.

Ed ecco Mokoš’. Scopre il suo seno turgido e allatta. Guarda fuori, dondolandosi e canticchiando una melodia. Sistema le fasce del fagotto che tiene. Sorprende l’occhiata della recluta con le mostrine rosse delle forze dell’ordine preposto a lei, e gli risponde con un sorriso.

Si arriva, infine, all’atto di accusa.

– La mattina del terzo giorno di munychion dell’anno corrente, la teste tal dei tali, che parla con la voce di un fiammifero resuscitato, è uscita in cortile per fare i suoi bisogni e ha visto quanto succedeva dall’altra parte della palizzata.

– Chiamate la teste!

– A che serve ascoltarla, tutto è chiaro! Non si può cavare sangue da una rapa!

– Allora a te la parola, Veles!

Si alza, getta uno sguardo all’aula, senza fretta si sfila l’orologio dal polso, lo posa davanti a sé, punta i pugni sul tavolo, manda un sospiro.

– Ahimè, il nostro secolo così materiale si è preoccupato dell’inviolabilità del corpo e ha inventato le torture dell’anima. Cosa non tocca sentire e vedere passando da una Belebej all’altra! No, i Calibani e le Calibane non esistono solo su isole ignote sottomesse al potere inflessibile di Prospero. Dopo aver tirato la carretta per vent’anni, non ci si stupisce più di nulla. C’è una sola cosa da dire: obscuri viri! Non dimenticherò mai la scena che vidi in un mercato: alcune donne comprano degli ombrelli, li aprono e vanno a passeggio, ma quando inizia a piovere li richiudono per paura di sciuparli e si coprono la testa con i lembi delle gonne. Ah, i selvaggi! Si uccidevano l’un l’altro, mangiavano ogni sorta di immondezze e il matrimonio non esisteva, ma venivano rapite le fanciulle presso le fonti, vivevano nella boscaglia e facevano discorsi osceni dinanzi ai padri e alle nuore! Quando ero giudice istruttore nella regione di Orenburg capitava che arrivassi sul luogo del delitto e, invece della scena abituale, trovavo il morto già lavato di tutto punto e sistemato nell’angolo delle icone, e l’izba rimessa in ordine come per una festa. Allargano le braccia e ti dicono: ‘Aspettando Vostra Grazia abbiamo messo un po’ a posto, aveste visto che scompiglio!’ Cosa rimane da dire? La mente e il cuore di una persona civilizzata non sono in grado di capire che si possa lasciare una madre cieca fuori di casa, al gelo! È come quando in viaggio leggi un libro o sogni cullato dal rollio delle ruote, poi decidi di andare un attimo sulla piattaforma ghiacciata per prendere una boccata d’aria, e là c’è un dito di brina. Soffi e soffi sul vetro, gratti la pellicola di ghiaccio con una monetina, ecco uno spioncino sulla notte, vedi strisciare via come delle braci semispente, e pensi: guarda un po’, c’è gente che vive qui e magari in questo momento, sì, in questo preciso momento, beve un tè al calduccio della stufa, mentre tu te ne stai a morire di freddo, in mezzo alla neve, accecato da quello che hai visto, strapazzato dal tuo vissuto, abbandonato sotto l’Orsa Maggiore, dimenticato, inutile. E così, ti chiedi se prima di morire ci sarà mai qualcuno che verrà a portarti un piccolo corroborante. Tieni, un bicchierino per te! Allora non resterebbe altro che sedersi nella neve e perdonare tutti! Secondo il diritto romano, il matricida era condannato a essere annegato dentro un sacco con un cane, un gallo, un serpente e una scimmia. Combatteremo i batteri che infestano l’organismo sociale sopprimendo la loro pericolosa progenie, epurando la natura, nobilitando i cuori!

– La parola alla difesa.

– Voi non mi credete né mi crederete per due ragioni: la prima è che nel vostro intimo avete già da tempo condannato la mia cliente, la seconda è che ai vostri occhi io, un avvocato mai visto fino a oggi, sono già annoverato come l’ennesimo fornicatore della parola. Immagino i sorrisetti sui visi della magistratura paludata: ecco che inizia il vaudeville, ecco Balalajkin che strimpella le sue scempiaggini. Ma devo pur mangiare anch’io. Non c’è niente da fare, mi tocca portare il giogo. Se il grado di cultura si misura dalla ricchezza delle impressioni provate, si può dire che più una donna è colta più si diversifica la sua attività in generale e quella criminale in particolare. Voglio sfatare questa opinione comune. La settimana scorsa, a Pereljub, veniva giudicata in udienza fuori sede una balia analfabeta. L’avevano licenziata e lei, andandosene, aveva lanciato una maledizione ai padroni: ‘Vedrete, Dio vi punirà!’ E in effetti, dopo la sua partenza, il bambino si mise a piangere e urlare per quattro giorni finché non si accorsero che aveva un capello arrotolato stretto attorno a un ditino con il nodo nascosto nell’incavo. Il capello era penetrato nella pelle, all’inizio avevano creduto che si trattasse di un taglietto, poi il dito si era infiammato ed era iniziata la cancrena. Oggi però siamo qui per un caso molto meno evidente. Due donne, madre e figlia, vivono insieme. Due destini infelici e distrutti che ne hanno patite delle belle nella loro triste, balorda vita. Entrambe sognavano una semplice felicità di donna, ma non è andata così, è toccato soffrire. Siccome la madre invecchiando aveva perso la vista, era Mokoš’ che la prendeva sottobraccio e la portava un po’ fuori. E fin qua tutto a posto, poi un giorno arrivano le doglie, si rompono le acque, il parto e tutto il resto. Di chi era il bambino? E chi lo sa! Un legionario romano, un carpentiere o un raggio di luce dal pulviscolo dorato, non è affar nostro. Lei soffre tutto il possibile e infine si addormenta. Mica tutte figliano come le gatte. L’estate scorsa, per esempio, si è esaminato un caso simile al tribunale di distretto. Per l’appunto Grigorij Vasil’evič rappresentava l’accusa, e io ero l’avvocato d’ufficio. Non vi racconto mica storie. Si trattava di una bella figliola piena di salute che non aveva detto niente ai genitori, si fasciava il ventre. Ma poi arrivò il momento. Ha partorito, ma il bambino è nato morto. Dal panico l’ha gettato nella stufa. Ha raccontato che stava in cucina appoggiata al tavolo e ha sentito qualcosa uscire da lei e cadere. Lo ha avvolto in una carta servita per le aringhe e via, nel fuoco. Più tardi la madre vide tracce di sangue mezzo cancellate sul pavimento. Versarono acqua sulla stufa e trovarono il piccolo cadavere semicarbonizzato. Il medico stabilì che la gravidanza era giunta al termine, il nascituro era vivo e vegeto e aveva vissuto qualche istante dopo il parto, dato che c’era aria nei polmoni. Mokoš’ invece si è addormentata con il suo piccino stretto a sé. La vecchia, per non svegliare la figlia sfinita, decide di uscire da sola. Ma a casa non è tornata. Inciampa in un ceppo di legno e cade. Chiama ma nessuno la sente. Con addosso solo un golfino non ci ha messo molto a congelare. L’hanno trovata il mattino successivo, seduta nella neve, le mani giunte come in preghiera. Troppo facile accusare questa creatura indifesa, con le orecchie che sembrano appuntate con gli spilli, le labbra alla Hutchinson, il palato a forma di sella, il vizio di rosicchiarsi le unghie e i riflessi plantari lenti! Sarebbe dunque Lombroso il riferimento, per noi ortodossi? Se voi adesso l’accusate, la sua vita non sarà più nient’altro che miseria, pianto e digrignar di denti. La misericordia è l’anima della giustizia. Togliete l’anima a un corpo e non rimarrà che un cadavere.

Togliete la misericordia alla giustizia e rimarrà solo la lettera. Un imperatore romano firmando un verdetto di morte esclamò: ‘Misero me che so scrivere!’ Sono sicuro che il vostro decano, al momento di apporre la sua firma alla sentenza assolutoria, proverà un altro sentimento e dirà: ‘Beato me che so scrivere!’ Sia fatta giustizia! Sono certo che opterete per l’assoluzione e lascerete in pace questa povera donna e raccoglierete per lei un po’ di denaro.

Durante la pausa uno dei giurati si è sbronzato al buffet e urla a tutta l’aula:

– Se voglio la condanno, se voglio la assolvo!

Nel suo discorso Perun raccomanda ai giurati di affidarsi sol-tanto alla loro intima convinzione, al buon senso e alla coscienza. Lo sapete pure voi, dice, come cambia il vento cambia la legge, il sangue del colpevole è acqua ma quello dell’innocente macchia, senza pensare non si può condannare, male non fare paura non avere. E aggiunge:

– Ricordate: non bisogna avere paura della magnanimità, essa non corrompe mai, al contrario nobilita persino i cuori malvagi.

Il tempo di uscire un istante che già si rientra a spintoni e gomitate.

Tutti si alzano. Il decano si fa il segno della croce davanti all’icona e, dopo essersi schiarito la voce, proclama:

– Tutti gli esseri viventi cercano la felicità e fuggono la sofferenza.

E il futuro comincia.

Strapperanno il piccolo dalle braccia di Mokoš’ e lo metteranno in un ricovero ben riscaldato dove di notte fanno dormire i bambini nudi sulla tela cerata per non stare sempre a fare il bucato.

In prigione la madre piangerà tutte le sue lacrime, poi una compagna le insegnerà a simulare la follia.

– Vedrai, ti trasferiranno in manicomio, nomineranno una commissione e niente lager della Kolyma.

La notte Mokoš’ comincerà a urlare, strillare, imprecare come un’indemoniata, a mostrare gli organi genitali, a spalmarsi addosso i propri escrementi. E davvero la mettono tra i matti dove gli inservienti non fiatano e camminano con gli stivali di feltro per non rompere il silenzio. Nella commissione ci sarà un medico navigato che sussurrerà all’orecchio del giovane collega fresco di diploma e al primo giorno di lavoro:

– Smascherare una simulazione, Dmitrij Michajlovič, è molto semplice…

– Nikolaevič – lo correggerà il novellino arrossendo nel vedere Mokoš’ urinare direttamente sul tappeto, in piedi, a gonna alzata.

– La prego di scusarmi, Dmitrij Nikolaevič, ma sa, dopo una notte in bianco ci si dimentica parecchie cose. Mi è capitata una detenuta che ha partorito due gemelli, un calvario, si immagini. Un maschio e una femmina. Ne ho fatti di parti, ma ogni volta sono felice come uno studentello. Le chiedo che nomi ha scelto. E lei: Saša e Saša. Ma che senso ha!? le dico sorpreso. Mi va bene così, è in onore del padre. Le faccio: Ma quale onore!? ha sgozzato un poveretto! E quella: ha fatto bene a sgozzarlo! Proprio così, Dmitrij Michajlovič! Quanto a questa signorina, sistemiamo la faccenda in quattro e quattr’otto! Stia a vedere!

E dirà ad alta voce:

– Bisogna darle del cloroformio! Si addormenta e fine della crisi!

E a Mokoš’, che si contorce per terra in preda alle convulsioni, farà respirare dell’essenza di menta.

La crisi si spegne poco a poco, la paziente si ferma e si calma.

– Vede come è semplice, Dmitrij Michajlovič? Lo chiamano ‘bluffare’. Fanno i pagliacci come se avessero a che fare con dei microcefali. D’altra parte, chi ha voglia di mangiare palle di neve all’estremo nord in una baracca senza riscaldamento? Venga, le faccio vedere come si verbalizza la visita!

Così spediranno Mokoš’ all’estremo nord. Prima tappa Pot’ma. Ma la notte precedente la partenza, lei si impiccherà alle sbarre della cella con un asciugamano. Poi la vicina, raccontando la cosa in treno dopo la distribuzione delle aringhe (e in quel momento fuori si vedrà passare l’insegna “Saraktaš”), dirà a proposito della sorvegliante:

– Quando l’ha vista si è messa a tremare come una foglia. È chiaro che ci tiene al suo posto, dovrà pur vivere anche lei.

A Picunda, in un ristorantino sul mare, Svarog guarderà sua moglie mangiare un dolce e dire qualcosa prendendo con la forchetta la crema nel piatto. Poi nella dacia di Verbilki verrà messa a dimora la palma rinvigorita con l’estate. Due anni più tardi suo figlio griderà: l’arcobaleno! È la tata, che mentre stirava si è riempita la bocca d’acqua e l’ha spruzzata fuori. Un anno dopo ancora, Svarog metterà sua madre nella bara, e quella sorriderà. Svarog balzerà indietro e un impiegato delle pompe funebri gli spiegherà che non c’è niente di cui avere paura, è normale, uno spasmo dei muscoli. L’estate successiva nuoterà accanto alla barca e aggrappato alla sponda aprirà la bocca e la nuova sposa gli poserà sulla lingua una fragola. Finirà il suo ultimo discorso alzando l’indice e barrando con una croce l’aria viziata della sala piena zeppa: “Né delitto né castigo!” A pranzo il sangue gli sgorgherà all’improvviso dalla gola, dritto nel piatto.

Una notte di molti anni più tardi Veles, sdraiato nel suo letto senza dormire, di punto in bianco penserà:

– Signore, grazie per questo bambino che dorme beato nel suo lettino, per questa donna accanto a me, per questa striscia di luce sul soffitto, per il fischio del treno merci notturno, per queste due stelle alla finestra.

Perun si passerà un fazzoletto sul collo sudato e agiterà una mano dicendo:

– Ci vorrebbe un temporale!

E in quell’istante, non osando disubbidire, un tuono lontano romberà sui tetti delle dace.

– Guarda, Pallino, – dirà Perun indicando col dito in direzione del boschetto – guarda come sono maturate le prugne!

Laggiù, appoggiata alle cime delle betulle, si vede approssimarsi la fine del mondo, tonante, vorticosa, esplosiva.

– Quando ero piccolo come te, – dirà Perun a Pallino perché non avrà nessun altro con cui parlare – con l’unica differenza che tu sei già vecchio e hai la coda, mentre io alla tua età ero ancora un ragazzino che leggeva libri per bambini, be’, quando ero piccolo, lessi in uno di quei libri di un cane che andava sulla tomba del padrone e lo aspettava. Forza, salta fuori, andiamo a fare il nostro solito giretto: la panetteria, il latte, l’edicola, il giardino, io ti porterò il giornale in bocca! Pieni di compassione, i visitatori del cimitero gli posavano davanti al naso pezzetti di pane, uova o quel che avevano, ma lui non mangiava nulla. Fu così che morì di sfinimento e fedeltà. Lo seppellirono proprio lì, nella tomba del padrone, così avrebbero potuto rifare la loro solita passeggiata: la panetteria, il latte, l’edicola, il giardinetto e ogni volta lui avrebbe portato il giornale in bocca. Vedi, Pallino, che cani ci sono! E se da un giorno all’altro io tiro le cuoia, che ne sarà di te? Non ho neanche una persona cui affidarti. Sarà anche la tua fine, povero cagnoletto mio!

Il tetto della rimessa vicina prima si coprirà di bolle sparse, poi d’un sol colpo si inzupperà tutto, brillerà e rifletterà il cielo. Dall’altra parte della palizzata i pioppi si metteranno a tremolare. I rami secchi dei pini si schianteranno sul sentiero. Tamburellio sui lillà. Dalla grondaia cominceranno a venir giù timidi goccioloni, poi si formerà un filo d’acqua che diventerà un fiotto rapido, impetuoso, accanto alla botte, e spargerà sui phlox scaglie di mattoni e fango.

E Perun in veranda acciufferà la tenda che stava per gettarsi dalla finestra.

E il mondo rotolerà negli abissi, ingrandendosi di dettagli come una palla di neve: ronfa, gorgoglia, sibila, borbotta, gracchia, tossicchia, stride e mugghia fino alla fine dei secoli, fino a che qualcuno non chiuderà questo libro a rilegatura stellata.