10 ottobre from Absolutely Nothing
Written in Italian by Giorgio Vasta
Lasciato l’Ufo Museum di Roswell ci dimentichiamo di voler raggiungere il cratere dell’ufo crash, passiamo dal New Mexico al Texas e arriviamo ad Allamoore. Lungo la strada ci siamo fermati in un drugstore dove Ramak e io, furtivi, fingendo che Silva non se ne accorgesse, abbiamo comprato una torta fluorescente e due candeline nascondendo poi tutto nel portabagagli.
Silva ci ha spiegato che Allamoore si chiama così dal nome di un’impiegata dell’ufficio postale, Alla R. Moore, che cominciò a lavorare qui nel 1888; fino ad allora questo luogo si chiamava Acme, che era a sua volta il nome del primo ufficio postale aperto nel 1884. Non si sa se fu la postina a decidere d’imperio che Allamoore prendesse il suo nome, o se a determinare lo slittamento onomastico sia stata invece, più umilmente, la consuetudine per cui chi andava a ritirare la posta da Alla Moore prese a identificare il luogo con la persona. All’inizio la presenza umana ruotò intorno alle miniere di rame e argento; tra il 1960 e il 1971 vennero aperte due fabbriche di talco che chiusero nel giro di pochi anni. Oggi vivono qui venticinque persone, e anche nei tempi migliori gli abitanti non sono mai stati più di cento. Eppure c’è ancora una scuola, la Allamoore School, bianca celeste e vuota, i vetri delle finestre rotti e la porta d’ingresso bloccata da una serratura nuovissima. Ad accompagnarmi intorno all’edificio ci sono due cuccioli di cane che quando poco fa sono passato davanti a una delle poche case abitate mi sono corsi incontro abbaiando innocui. Ce ne stiamo un po’ a giocare intorno a un’altalena rotta, io che tengo un ramo sollevato, loro che corrono saltano e lo afferrano, lo spezzano, lo abbandonano e tornano a supplicare gioco, più e più volte, fino a quando non mi ricordo di Bombay Beach, prendo un pezzo di legno massiccio, mi inarco e lo scaglio così lontano che i cani inseguendolo spariscono nel deserto. A questo punto Ramak mi fa cenno che è ora. Fin qui lui e Silva sono andati in giro a fotografare; adesso, mentre lei continua a scattare, noi due torniamo alla jeep, infiliamo le candeline nella torta fluorescente e le accendiamo, ce la nascondiamo dietro le spalle e chiamiamo Silva. Mentre ci raggiunge, dalle fabbriche di talco abbandonate si solleva una tempesta, le particelle bianche vorticano mescolate alla sabbia offuscando ogni cosa. Lo stesso, inflessibili, appena intravediamo Silva ci mettiamo a cantare Happy birthday to you, la polvere negli occhi, le gole che bruciano, lei che si rannicchia nel tentativo di proteggersi dal vento, e quando le porgiamo la torta le candeline sono volate via così come una parte della fluorescenza, il resto della glassa si sta riempiendo di sabbia. Ugualmente lei soffia sulla torta sfaldata e ci ringrazia, dice che è commossa, ma il luccichio negli occhi è per la polvere; poi Ramak la costringe a montare sul retro arrugginito di un vecchio treno merci, la torta in equilibrio su una mano.
È per lo sponsor, chiarisce comprendendo nello scatto anche la jeep parcheggiata lì accanto.
Infine la tempesta si placa, conserviamo nel bagagliaio ciò che resta della torta e imbarazzati riprendiamo a girare.
Anche ad Allamoore, penso camminando da una baracca all’altra, a imporsi è lo spazio. Qualcosa che non è possibile stimare in metri o in acri perché eccede ogni tentativo di misurazione. Lo spazio nordamericano è dismisura, oltranza, dissipazione orgogliosa e militante, un fenomeno silenziosamente aggressivo che contiene un enigma, una domanda trasparente che giace nella distanza tra un fabbricato e l’altro: perché non li hanno costruiti più vicini? Entrando in un cortile infestato da erbastra cespugli duri e frammenti di recinto, vedo un canestro da basket appeso a un cartello segnaletico giallo con una freccia curva nera; più in là, affiorante dall’avena folle, l’opalescenza da diafanoscopio di un cavallino a dondolo. Strappando il folto a ogni passo trovo qualcosa di convesso che affiora da un cespuglio, il turchese a brandelli, il marchio Wilson ancora leggibile. Nel giro di un minuto, il paraurti anteriore della jeep a segnare la porta – Silva portiere, Ramak e io uno contro l’altro – cominciamo una partita di calcio anarchica e sfiatata, senza regolamento, senza campo e senza tempo, il fantasma di un gioco che qualche minuto dopo ci fa rientrare in macchina impolverati e in anossia, ma con Wilson incastonato al centro del paraurti come una polena.
Qualche ora più tardi, in un motel di Marfa, quando ancora prima di cena Silva si ritira in camera Ramak mi dice che allora questa sera io e lui mangeremo le nostre provviste cucinando proprio qui, sul piazzale antistante il motel, usando il fornello a propano. È la rivincita, sempre calma e svagata, che Ramak – il suo culto dell’attrezzatura, il suo mito dell’autosufficienza – si prende su dieci giorni di viaggio conclusi cenando nell’agio indegno dei McDonald’s e degli Starbucks.
Dopo aver preparato un antipasto di alici versate dal vasetto in un piatto di plastica e accompagnate da pancarrè inumidito (che – lo annuso – sa di mela perché nel bagagliaio la frutta deve avere rilasciato il suo siero negli alimenti intorno), Ramak prende una bottiglia d’acqua e la svuota in un pentolino che sistema sul fornello; poi apre un barattolo e versa la salsa di pomodoro in una piccola padella tirata fuori dal suo zaino di stoviglie. Solo che il fuoco è uno; cucinata la pasta, per condirla si dovrà aspettare il tempo di preparare il sugo. Nell’attesa ci sediamo uno accanto all’altro sul bordo del marciapiede e mangiamo le acciughe inzuppando il pancarrè alla mela nell’olio salato. Ogni tanto Ramak esamina la corona azzurra scuotersi sotto il pentolino, si alza a regolare la fiamma, torna a sedersi. Intorno a noi, buio e silenzio. Dopo un poco uno schiocco, poi un bagliore, e ancora qualcosa che stride, un’altra piccola luce che scorre orizzontale, uno scricchiolio tra gli alberi oltre lo spiazzo, di nuovo uno scintillio, lontano e intermittente. Mi alzo in piedi di scatto.
Cosa c’è?, mi domanda Ramak.
Hai sentito?
Cosa?
Non vedi i bagliori?
Quali bagliori?
C’è qualcuno, dico posando il piatto sul marciapiede, preoccupato ma felice di avere detto una cosa del genere (ero già felice mentre dicevo Hai sentito?, ma avere sviluppato la sequenza fino a C’è qualcuno è inestimabile).
Dopo un’occhiata in giro, Ramak riprende a mangiare.
Non facciamo niente?, dico.
Cosa dobbiamo fare?
C’è qualcuno.
Non c’è nessuno.
Come fai a esserne sicuro?
Non ne sono sicuro, ma non capisco qual è il problema.
Hai presente The Texas Chainsaw Massacre?
Sì.
E The Hills Have Eyes?
Sì.
Cannibal Holocaust?
Anche.
Spider Baby?
Di chi è?
Di Jack Hill.
Non ricordo.
Antropophagus?
No.
I bagliori sono le sclere bianche, dico, e i rumori sono i loro passi.
Di chi?
Della famiglia antropofaga.
Non ti seguo.
Nei film sul cannibalismo arriva sempre il momento in cui gli antropofagi si acquattano pronti ad avventarsi sugli umani; nel buio si riconosce il bianco dei loro occhi e il silenzio della foresta è rotto dagli scricchiolii dei loro passi.
Della foresta?
A volte si trovano in Amazzonia.
Siamo nel deserto del Texas.
Va bene, dico impaziente, finora non ne ho parlato ma adesso devo farlo. Detto ciò fisso ancora la corolla di buio intorno a noi e di nuovo intravedo un barlume luminoso che fluttua, scompare, riappare.
Ci penso dall’inizio del viaggio, dico camminando avanti e indietro. Anzi da prima.
A cosa?
Non è proprio un’ossessione, dico, o forse sì, e lo so che sembra illogico e aberrante, ma non lo è.
Cosa?
L’antropofagia.
Ancora?
La famiglia antropofaga.
Ho capito, ma che vuoi dire?
Riguarda il senso del viaggio, dico. L’idea tradizionale e la sua pratica. Si viaggia per aumentare, per incrementare: per arricchirsi, come si dice. Si vuole portare dentro di sé, inglobare, o meglio ancora incorporare.
E cosa c’è di male? Anche noi siamo qui per questo. Prendiamo, tu con la scrittura e io con la fotografia.
Non va bene.
Cosa vuol dire non va bene?
Che un viaggio non è una battuta di caccia, né il catalogo di tutto ciò che si è riusciti ad afferrare.
Perché non può essere così? Nel viaggio siamo predatori, ci appostiamo e aspettiamo, abbiamo bisogno di catturare, che si tratti del Trotter Park o di Mr. ZZ Top.
Non dobbiamo più essere predatori, dico.
E che cosa dobbiamo essere?
Prede.
Prede?
Solo la preda conosce davvero.
Un brontolio liquido: Ramak si alza, versa i maccheroni nel pentolino, aggiunge un po’ di sale, torna a sedersi.
Allora, dice. Quello che hai visto poco fa non sono gli occhi degli antropofagi ma le cosiddette luci di Marfa, nient’altro che un effetto ottico prodotto dagli abbaglianti delle auto che si riflettono nell’atmosfera.
Ah, dico.
Questo però non risolve il problema.
Che problema?
La tua paura della famiglia antropofaga.
Non è una paura, è un desiderio: io li vedo.
Li vedi?
Sono cinque: un uomo, una donna, due bambini, un vecchio.
Il nonno?
Laceri, affamati, fieri.
Ramak si rialza, aggiunge del sale, mescola, va di nuovo a sedersi sul bordo del marciapiede; mi siedo accanto a lui.
Fammi spiegare meglio, dico. Nei film sul cannibalismo ci sono persone in
viaggio – quindi noi – che a un certo punto vengono catturate dagli antropofagi. Muoiono sempre tutti, e in modo atroce, tranne uno che sopravvive, fugge e racconta che cosa è accaduto. Ramak annuisce.
Quello è il canone, dico. Io però ho una visione più radicale: sono contrario al sopravvissuto.
Vuoi che muoiano tutti?
Metterla così è sbagliato.
Be’, dice Ramak, sono divorati, quindi muoiono tutti.
Sono divorati, ripeto, ci basta questo.
Nessun sopravvissuto e tutti insieme rinchiusi nello stomaco dell’antropofago, riepiloga Ramak.
Esatto.
Bene.
Bolo.
Cosa?
Il bolo, ripeto. E poi il chimo e il chilo.
Ramak mi guarda senza capire.
Sono i nomi che prende il cibo via via che si trasforma passando dalla bocca allo stomaco.
L’espressione di Ramak rimane perplessa.
Intendo dire che il senso del viaggio è diventare questo.
Bomo, chivo e chiro?
Bolo, chimo e chilo.
È orribile.
Anche, ammetto. Ma credimi, è quello che deve succedere. Smetterla di andarsene in giro come soggetti, sempre dritti e presuntuosi, e invece dissolversi, diventare oggetto, cibo, nutrimento. Passare da consumatori a consumati. Essere divorati dal viaggio.
Questo per te è il culmine dell’avventura?, dice Ramak versando i maccheroni in un colapasta di plastica, l’acqua bollente che si perde sull’asfalto. Osservando l’operazione mi viene il dubbio che avrebbe dovuto procedere al contrario, prima il sugo e poi la pasta, ma sto zitto: constatato ancora una volta che la farragine è la nostra unica prassi, lo guardo sistemare il padellino con la salsa di pomodoro sul fuoco, la pasta già nei piatti a intiepidire nella sera.
Sì, dico. È quello che vorrei.
Metaforicamente, però.
Se non c’è altro modo.
Non c’è perché le famiglie antropofaghe non esistono.
Non sono d’accordo. Si legge da anni di esperimenti nucleari nel deserto americano, di gas tossici che producono mutazioni genetiche. Ho letto di un villaggio dove gli abitanti sono diventati albini e deformi.
Leggende.
Ma invece potrebbero anche—
Gli antropofagi non esistono, mi interrompe Ramak e questa sua perentorietà mi amareggia. Proprio lui, il dissolutore dei confini tra vero e falso, l’eversore di ogni differenza tra verità e bugia, tra ciò che esiste e ciò che non esiste, colui il quale sa che storia e leggenda sono nozioni complici e ambigue, non dovrebbe adesso affermare in modo così inappellabile che gli antropofagi non sono reali.
Aspetta, dico, e allungando il passo entro nel motel, raggiungo la mia camera, frugo nel trolley, trovo quello che cerco e torno indietro. Ecco, dico mostrandogli la copertina di un libro.
Guida del cercatore d’oro della California, legge lui e intanto aggiunge il sugo alla pasta ormai fredda, poi del pepe e ancora qualche acciuga, una scatoletta di tonno, un pugno di olive nere.
L’ho letto in aereo, dico. Durante la corsa all’oro dava ai prospectors informazioni sui giacimenti; a un certo punto riporta un articolo del «California Star» sui pericoli che si correvano provando a raggiungere il Pacifico attraverso le Montagne Rocciose. Leggi, aggiungo aprendo il libro alla pagina giusta.
Lui mi guarda, posa per terra il piatto.
Ad alta voce?
Gli faccio cenno di sì, prendo il mio piatto, addento: un maccherone salmastro mi crocchia tra i denti.
«È difficile immaginare una scena più spaventosa di quella che si presentò agli occhi della spedizione accorsa in aiuto dei disgraziati emigranti nei monti della California. Le ossa di coloro che avevano reso l’anima a Dio ed erano stati divorati dagli infelici a cui era rimasto un fil di vita, erano sparse attorno alle tende e alle capanne. Ovunque corpi di uomini, donne e bambini, in buona parte spolpati. Una donna seduta accanto alla salma del marito che aveva appena esalato l’ultimo respiro era intenta a recidergli la lingua; il cuore lo aveva già asportato, abbrustolito e mangiato! Si vedeva la figlia addentare la carne del padre, la madre quella del figlio, i figli cibarsi del padre e della madre. L’aspetto emaciato, l’aria stralunata e spettrale dei superstiti contribuivano ad accrescere l’orrore della scena. Impossibile descrivere a parole la terribile metamorfosi che poche settimane di atroci sofferenze avevano operato nella mente di quelle povere creature degne di commiserazione. Coloro che solo un mese prima avrebbero rabbrividito pieni di disgusto al pensiero di assaggiare carne umana, o di uccidere i compagni e i parenti per restare in vita, ora consideravano le occasioni che venivano loro offerte di scampare alla più orribile delle morti come una provvidenziale intercessione in loro favore. Mentre sedevano attorno ai tetri falò, facevano freddamente i calcoli per i pasti avvenire».
Sai quando in The Gold Rush Big Jack, stremato dalla fame, vede Charlot come un pollo e cerca di mangiarselo?, mi domanda Ramak interrompendo la lettura.
Sì.
A Chaplin quella scena era venuta in mente perché aveva letto in un libro di un gruppo di prospectors che si perde nei ghiacci della Sierra Nevada, rimane isolato e si abbandona al cannibalismo.
Quindi ammetti che gli antropofagi esistono?
Qualche episodio causato dalla denutrizione non dimostra niente.
Finisci di leggere.
«Le corde che un tempo vibravano di affetto coniugale, filiale, paterno o materno si erano spezzate: sembravano tutti ben decisi a sfuggire all’imminente calamità senza alcun rispetto per la sorte dei compagni. Persino gli indiani delle montagne, selvaggi e ostili, una volta penetrati nei loro accampamenti, si mossero a pietà, e invece di seguire il naturale impulso di infierire contro i bianchi e sterminarli, come avrebbero potuto fare con estrema facilità, spartirono con quelle infelici creature le loro provviste, quantunque scarse. Ormai gli emigranti erano così cambiati che quando giunse la spedizione di soccorso coi viveri, alcuni gettarono da parte il cibo: a quanto pareva, preferivano la putrida carne umana che era avanzata. Il giorno prima che arrivasse la squadra, uno degli emigranti si portò nel letto un bambinello sui quattro anni, e lo divorò tutto prima dello spuntar dell’alba; l’indomani non era ancora suonato mezzodì che ne aveva sgranocchiato un altro più o meno della stessa età».
Vedi?, gli dico quando richiude il libro e me lo passa. È comico.
Comico?
Senza volerlo, ma lo è.
Io non volevo dire questo.
E cosa?
Che gli antropofagi esistono. Ci risiamo.
A certe condizioni, per colpa della fame o degli esperimenti nucleari, ma esistono.
Ramak non dice niente, con il palmo della sinistra regge il piatto, con la destra trafigge un maccherone, fa la scarpetta nell’intruglio rossastro e lo porta alla bocca.
Ti ricordi Bill?, domando. Quello del Bagdad Café?
Sì, quando cantava.
Ramak annuisce.
Era come l’incontro di Ulisse con le sirene.
Bill era una sirena?
Forse era un antropofago.
Ancora?, domanda lui masticando mentre sopra il mio piatto deposto sul marciapiede vortica piano una falena.
Le sirene erano antropofaghe, dico. Quando Ulisse si fa legare per ascoltarle, vede che le rocce tutt’intorno sono cosparse delle ossa dei marinai che si sono gettati in mare per raggiungerle.
Non mangi?, mi domanda Ramak masticando e cacciando la falena da sopra il mio piatto.
Non ho più fame.
Posso?
Sì, rispondo e allora lui fa scivolare la mia pasta nel suo piatto e riprende a mangiare.
Ulisse, dico, sa che il suo desiderio di canto, di incanto, è collegato al pericolo. Perché avere a che fare con la meraviglia spella, spolpa, scarna: divora; la meraviglia imprigiona, prende in ostaggio, si nutre del meravigliato.
Continuando a mangiare Ramak fa cenno di sì con la testa.
E noi in fondo cosa chiediamo a un viaggio?, gli domando.
La meraviglia, borbotta lui deglutendo e poi si ferma, posa il piatto, mi guarda fisso. Forse hai ragione, dice.
Io voglio essere divorato dal viaggio, dico.
Ramak si alza in piedi, si allunga nella penombra del bagagliaio. Intanto vuoi un po’ di torta?
Non riesco a capire se il tono della domanda sia ironico, però accetto e lui tira fuori le macerie del compleanno, me ne porge una zolla, la osservo, risollevo lo sguardo verso la ramaglia scura oltre il piazzale, le lucine che sono il bianco degli occhi, i rumori che sono i passi notturni, e poi in un morso spezzo il guscio smaltato e il pan di spagna, sento lo zucchero, la sabbia, il talco, il sapore nero di ogni meraviglia.
Published March 6, 2017
Tratto da Giorgio Vasta, Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, con fotografie di Ramak Fazel, Quodlibet/Humboldt, 2016. Per gentile concessione dell’autore e degli editori.
© 2016 Quodlibet
© 2016 Humboldt
En quittant l’UFO Museum de Roswell, nous oublions que nous voulions voir le cratère formé par l’OVNI lorsqu’il s’est écrasé. Nous passons du Nouveau-Mexique au Texas et arrivons à Allamoore. En route, nous nous sommes arrêtés dans un drugstore où, faisant mine de croire que Silva ne l’avait pas remarqué, Ramak et moi avons discrètement acheté un gâteau fluorescent et deux bougies, que nous avons cachés dans le coffre de la voiture.
Silva nous a expliqué qu’Allamoore devait son nom à une employée des Postes, Alla R. Moore, qui commença à y travailler en 1888. Jusqu’alors, ce lieu s’appelait Acme, du nom du premier bureau de poste qu’on y avait ouvert en 1884. On ignore si c’est la postière qui, d’autorité, décida qu’Allamoore prendrait son nom ou si ce glissement toponymique vient plus modestement de la façon dont ceux qui allaient retirer leur courrier chez Alla Moore s’étaient mis à identifier le lieu et la personne. Au début, la présence humaine venait surtout des mines de cuivre et d’argent ; puis, entre 1960 et 1971, on y avait ouvert deux usines de talc, qui fermèrent quelques années plus tard. Aujourd’hui, vingt-cinq personnes vivent ici et même à la meilleure époque, il n’y a jamais eu plus de cent habitants. Pourtant, on trouve encore une école, la Allamoore School, bleu ciel, blanche et désormais vide, aux vitres cassées et à la porte d’entrée fermée par une serrure flambant neuve. Deux chiots font le tour du bâtiment en notre compagnie. Peu avant, quand je suis passé devant l’une des rares maisons occupées, ils m’ont couru derrière en aboyant, parfaitement inoffensifs. Nous jouons pendant un moment près d’une balançoire cassée, je lève une branche et ils se précipitent, sautent et l’attrapent, ils la brisent et l’abandonnent, avant de me supplier plusieurs fois de rejouer, jusqu’au moment où je me souviens de Bombay Beach. Je ramasse alors un morceau de bois massif, je me penche en arrière et le lance si loin que les chiens disparaissent dans le désert en le cherchant. Ramak me fait signe que c’est l’heure. Avant, Silva et lui sont allés faire un tour pour prendre des photos, et maintenant, tandis qu’elle continue, nous regagnons tous deux la Jeep, lui et moi, nous disposons sur le gâteau fluorescent les bougies que nous allumons, nous cachons le gâteau derrière nous et appelons Silva. Pendant qu’elle nous rejoint, une tempête se lève au-dessus des usines de talc désaffectées, les particules blanches tourbillonnent et se mêlent au sable, formant un nuage opaque. Inflexibles malgré tout, dès que nous apercevons Silva nous entonnons Happy birthday to you, de la poussière dans les yeux et la gorge qui brûle, elle qui se recroqueville dans l’espoir de se protéger du vent, et quand nous lui présentons le gâteau, les bougies ont disparu, emportées avec une part de la fluorescence, et ce qui reste du glaçage est couvert de sable. Elle souffle néanmoins sur le gâteau émondé et nous remercie, elle dit qu’elle est émue, mais si ses yeux brillent, c’est à cause de la poussière. Enfin Ramak l’oblige à grimper à l’arrière rouillé d’un vieux train de marchandises, le gâteau en équilibre sur une main.
C’est pour le sponsor, il précise, faisant en sorte que la Jeep garée à côté soit dans le cadre.
Puis la tempête s’apaise, nous rangeons dans le coffre ce qu’il reste du gâteau et, gênés, nous reprenons notre errance.
À Allamoore aussi, c’est l’espace qui s’impose, je songe en passant d’une baraque à l’autre. Une dimension qu’on ne peut pas mesurer en acres ou en mètres, car elle échappe à toute tentative de mesure. En Amérique du Nord, l’espace est démesure, outrance, gaspillage fier et militant, un phénomène silencieusement agressif qui renferme une énigme, une question transparente, dans la distance qui sépare deux préfabriqués : pourquoi ne pas les avoir construits plus près les uns des autres ? J’entre dans une cour infestée de mauvaises herbes, de buissons secs et de morceaux d’enclos, et je vois un filet de basket-ball accroché à un panneau de signalisation jaune, orné d’une flèche circulaire et noire. Plus loin, un cheval à bascule opalescent et comme éclairé par diaphanoscopie se dresse dans l’avoine folle. Je me fraie un passage entre les mauvaises herbes et j’aperçois une forme convexe dans les buissons, d’un bleu turquoise lacéré, le logo Wilson encore lisible. Une minute plus tard, nous entamons un match de football anarchique et essoufflé — Ramak contre moi, Silva gardien, le pare-chocs avant de la Jeep en guise de but —, sans règle, sans terrain et sans limite de temps, un fantasme de jeu qui nous pousse dans l’habitacle de la voiture au bout de quelques minutes, couverts de poussière et hypoxiques, tandis que Wilson est encastré au centre du pare-chocs, telle une figure de proue.
Quelques heures plus tard, dans un motel de Marfa, quand Silva se retire dans sa chambre avant le dîner, Ramak m’annonce que ce soir, lui et moi mangerons nos provisions et que nous ferons la cuisine précisément là, sur le parking devant le motel, au moyen du réchaud à propane. C’est la revanche, toujours calme et désinvolte, que Ramak — et son culte du matériel, son mythe de l’autosuffisance — prend sur dix jours de voyage dans le confort indigne des McDonald’s et des Starbucks.
Une fois qu’il a préparé un hors-d’œuvre composé d’anchois en pot versés sur une assiette en plastique et accompagnés de pain de mie mouillé (qui sent la pomme, je constate, car dans le coffre les fruits ont dû transpirer sur les autres aliments), Ramak prend une bouteille d’eau et la vide dans une casserole qu’il pose sur le réchaud. Puis il ouvre une conserve et verse la sauce tomate dans une petite poêle qu’il a extraite de son sac à dos rempli d’ustensiles. Mais il n’y a qu’une flamme : quand les pâtes seront cuites, il faudra attendre que la sauce soit prête. Pour patienter, nous nous asseyons l’un à côté de l’autre sur le bord du trottoir et mangeons les anchois, en trempant le pain de mie à la pomme dans l’huile salée. De temps en temps, Ramak observe l’auréole bleue qui s’agite sous la casserole, il se lève et va régler la flamme, puis il se rassied. Autour de nous, l’obscurité et le silence. Au bout d’un moment, un claquement et un éclat de lumière, puis un autre bruit strident, une autre petite lumière qui se déplace horizontalement, un craquement parmi les arbres, en face du parking, et un nouveau scintillement, intermittent et lointain. Je me lève d’un bond.
Qu’est-ce que c’est ? me demande Ramak.
Tu as entendu ?
Quoi ?
Tu ne vois pas les lumières ?
Quelles lumières ?
Il y a quelqu’un, je dis en posant l’assiette sur le trottoir, inquiet mais heureux d’avoir dit une telle chose (je l’étais déjà en disant Tu as entendu ?, mais avoir enchaîné avec Il y a quelqu’un, voilà qui n’a pas de prix).
Ramak jette un coup d’œil autour de lui, puis il se remet à manger.
On ne fait rien ? je demande.
Qu’est-ce qu’on devrait faire ?
Il y a quelqu’un.
Il n’y a personne.
Comment fais-tu pour en être sûr ?
Je n’en suis pas sûr, mais je ne vois pas où est le problème.
Tu te souviens de Massacre à la tronçonneuse ?
Oui.
De La colline a des yeux ?
Oui.
De Cannibal Holocaust ?
Aussi.
De Spider Baby ?
C’est de qui ?
Jack Hill.
Je ne me souviens pas.
Antropophagus ?
Non.
La lumière, ce sont les sclérotiques, et le bruit est celui de leurs pas.
À qui ?
À la famille anthropophage.
Je ne te suis pas.
Dans les films qui parlent de cannibalisme, il arrive toujours un moment où les anthropophages se tapissent quelque part, prêts à bondir sur les humains. Dans le noir, on distingue le blanc de leurs yeux, le silence de la forêt qu’interrompt le craquement de leurs pas.
La forêt ?
Parfois ils sont en Amazonie.
On est au Texas. En plein désert.
D’accord, je dis, agacé. Je n’en ai pas encore parlé, mais maintenant je dois le faire.
Puis j’examine la corolle d’obscurité autour de nous et j’aperçois de nouveau un éclat lumineux qui flotte, disparaît et réapparaît.
J’y pense depuis le début du voyage, je reprends en marchant de long en large. Et même avant.
À quoi ?
Ce n’est pas vraiment une obsession, j’explique, ou peut-être que si. Et je sais que ça semble illogique, aberrant. Mais ça ne l’est pas.
Quoi ?
L’anthropophagie.
Encore ?
La famille anthropophage.
J’ai compris. Mais où est-ce que tu veux en venir ?
Ça concerne la signification du voyage, je réponds. L’idée habituelle et sa réalisation. On voyage pour augmenter, pour accroître, pour s’enrichir, comme on dit. On veut absorber, englober, mieux encore : incorporer.
Qu’y a-t-il de mal ? Nous aussi, on est venus pour ça. On prend : toi par l’écriture, moi par la photographie.
Ce n’est pas bien.
Comment ça, ce n’est pas bien ?
Un voyage n’est pas une partie de chasse, ni le catalogue de ce qu’on a réussi à rafler.
Pourquoi ça ne pourrait pas l’être ? En voyage, on est des prédateurs, on se poste quelque part et on attend. On a besoin de capturer, que ce soit Trotter Park ou Mister ZZ Top.
On ne doit plus être des prédateurs, j’affirme.
Et on doit être quoi ?
Des proies.
Des proies ?
Seule la proie connaît vraiment.
Un grondement liquide : Ramak se lève, verse les macaronis dans la casserole, ajoute un peu de sel et revient s’asseoir.
Très bien, il dit. Ce que tu viens de voir, ce ne sont pas les yeux d’anthropophages, mais ce qu’on appelle les lumières de Marfa : rien de plus qu’un effet optique produit par les catadioptres qui se reflètent dans l’atmosphère.
Ah, je fais.
Mais ça ne résout pas le problème.
Quel problème ?
Ta peur de la famille anthropophage.
Ce n’est pas une peur, c’est un désir : je les vois.
Tu les vois ?
Ils sont cinq : un homme, une femme, deux enfants et un vieillard.
Le grand-père ?
Déguenillés, affamés, effrontés.
Ramak se relève, il ajoute du sel, touille et revient s’asseoir au bord du trottoir. Je m’assieds à côté de lui.
Laisse t’expliquer un peu mieux, je dis. Dans les films sur le cannibalisme, il y a des gens en voyage — nous, donc — qui, à un certain moment, sont capturés par des anthropophages. Ils meurent tous, toujours, et de façon atroce. Un seul survit, s’enfuit et raconte ce qui s’est passé.
Ramak hoche la tête.
C’est la règle, je poursuis. Mais moi, j’ai une vision plus radicale : qu’il y ait un survivant, je suis contre.
Tu veux qu’ils meurent tous ?
Je ne le dirais pas comme ça.
Bon. Ils se font dévorer, donc ils meurent tous, se corrige Ramak.
Ils se font dévorer, je confirme, et ça nous suffit.
Pas de survivant, il résume. Tout le monde finit dans le ventre de l’anthropophage.
Exact.
Bien.
Le bol.
Hein ?
Le bol alimentaire, je précise. Puis le chyme et le chyle.
Ramak me regarde sans comprendre.
C’est ce que devient la nourriture en passant de la bouche à l’estomac.
Ramak conserve la même expression de perplexité.
Ce que je veux dire, c’est que ce destin est la signification du voyage.
Balle, bile et boule ?
Bol, chyme et chyle.
C’est horrible.
Entre autres, je reconnais. Mais crois-moi, c’est ce qui doit se passer. Arrêter de se balader comme de simples sujets, bien droits et sûrs de soi, et au contraire se dissoudre, devenir objet, nourriture, nutriment. Passer de consommateur à consommé. Être dévoré par le voyage.
C’est ça, pour toi, le comble de l’aventure ? me demande Ramak en versant les macaronis dans une passoire en plastique, l’eau bouillante qui se noie dans l’asphalte. En observant l’opération, j’ai un doute, peut-être qu’il aurait mieux fait de procéder de façon inverse : d’abord la sauce, puis les pâtes. Mais je ne dis rien : je constate une fois de plus que le pêle-mêle est notre manière de faire, et je le regarde poser sur le feu la petite poêle remplie de sauce tomate, pendant que les assiettes de pâtes refroidissent déjà dans l’air du soir.
Oui, je réponds. C’est ce que je voudrais.
Métaphoriquement, tu veux dire.
S’il n’y a pas d’autre moyen.
Il n’y en a pas, car les familles anthropophages n’existent pas.
Tu te trompes. Ça fait des années qu’on entend parler d’essais nucléaires dans le désert américain, de gaz toxiques qui provoquent des mutations génétiques. J’ai lu un article à propos d’un village dont les habitants sont devenus albinos et difformes.
Des histoires.
Mais ça pourrait aussi…
Les anthropophages n’existent pas, m’interrompt Ramak, dont le ton péremptoire m’indispose. Lui, l’homme qui brouille la limite entre le vrai et le faux, qui éradique toute différence entre le mensonge et la vérité, entre l’existant et le non-existant, qui sait bien que l’Histoire et la légende sont des notions complexes et ambiguës, cet homme-là ne devrait pas affirmer à présent de façon aussi catégorique que les anthropophages ne sont pas réels.
Attends, je dis, et je me dirige à grands pas vers le motel, je vais dans ma chambre, fouille dans ma valise, je trouve ce que je voulais et fais demi-tour. Regarde, je dis en lui montrant la couverture d’un livre.
Guide du chercheur d’or en Californie, il lit, et dans le même temps, il verse la sauce sur les pâtes désormais froides, les saupoudre de poivre et y ajoute quelques anchois, du thon en boîte ainsi qu’une poignée d’olives noires.
Je l’ai lu dans l’avion, j’explique. Pendant la Ruée vers l’Or, il fournissait aux chercheurs des informations sur les gisements. Il reprend aussi un article du California Star concernant les dangers que l’on courait en essayant de gagner le Pacifique à travers les Montagnes Rocheuses. Lis, je conclus en ouvrant l’ouvrage à la bonne page.
Il me regarde et pose son assiette par terre.
À voix haute ?
Je lui fais signe que oui et je prends mon assiette, j’avale une bouchée : un macaroni salé émet un craquement entre mes dents.
« On peut difficilement imaginer scène plus effrayante que celle à laquelle assistèrent les membres de l’expédition venus secourir les malheureux émigrants dans les montagnes californiennes. Les os de ceux qui avaient rendu leur âme à Dieu et qui avaient été dévorés par quelques infortunés qu’habitait encore un ultime souffle de vie étaient dispersés autour des tentes et des cabanes. Partout, des corps d’hommes, de femmes et d’enfants, pour une bonne part privés de chair. Une femme assise à côté de la dépouille de son mari, qui venait d’expirer, tentait de lui couper la langue. Elle lui avait déjà arraché le cœur, qu’elle avait fait rôtir et mangé ! On voyait une fille mordre à pleines dents dans le corps du père, une mère dans celui du fils, les enfants se régaler du père et de la mère. L’aspect émacié et l’air hébété, spectral, des survivants contribuaient à renforcer l’horreur de ce spectacle. Impossible de décrire avec des mots la terrible métamorphose que quelques semaines d’atroces souffrances avaient fait subir à l’esprit de ces pauvres créatures qui méritaient la commisération. Des gens qui, à peine un mois auparavant, auraient frémi de répulsion à l’idée de goûter de la chair humaine ou de tuer leurs camarades et leurs proches pour rester en vie, considéraient à présent les occasions qui se présentaient à eux comme une intercession de la Providence en leur faveur. Tandis qu’ils s’asseyaient autour de sinistres feux de camp, ils songeaient froidement aux prochains repas. »
Tu te souviens, dans La Ruée vers l’or, quand Big Jim, mort de faim, voit Charlot sous les traits d’un poulet et essaie de le manger ? me demande Ramak, s’arrêtant de lire.
Oui.
Chaplin avait imaginé cette scène parce qu’il avait lu dans un livre l’histoire d’un groupe de chercheurs d’or qui se perdent dans les glaciers de la Sierra Nevada, se retrouvent isolés et se livrent au cannibalisme.
Tu admets donc que les anthropophages existent ?
Quelques épisodes dus à la faim ne prouvent rien.
Continue de lire.
« Les cordes qui avaient autrefois vibré d’amour conjugal, filial, paternel ou maternel s’étaient rompues : ils semblaient tous bien déterminés à fuir la calamité imminente, sans aucune considération pour le sort de leurs camarades. Même les Indiens des montagnes, sauvages et hostiles, eurent pitié en entrant dans leurs campements et, au lieu de suivre leur instinct naturel, de s’acharner sur les Blancs et de les exterminer, comme ils auraient pu le faire avec la plus grande facilité, ils partagèrent leurs maigres provisions avec ces infortunés.
À présent, les émigrants avaient changé au point que, lorsque l’expédition venue les secourir leur distribua des vivres, certains refusèrent la nourriture : on dit qu’ils préféraient les restes de chair humaine en état de décomposition. La veille de cette arrivée, l’un des émigrants entraîna dans son lit un bambin de quatre ans et le dévora entier avant le lever du jour. Et le lendemain, midi n’avait pas encore sonné qu’il en avait déjà dévoré un autre plus ou moins du même âge. »
Tu vois ? je lui dis quand il referme le livre et me le tend.
C’est drôle.
Drôle ?
Involontairement, mais ça l’est.
Ce n’est pas ce que je voulais dire.
Tu voulais dire quoi ?
Que les anthropophages existent.
C’est reparti.
Dans certaines conditions, à cause de la faim ou des essais nucléaires, mais ils existent.
Ramak ne dit rien, l’assiette dans la main gauche, la droite qui pique un macaroni avec la fourchette, s’en sert pour saucer le liquide rougeâtre, puis le porte à sa bouche.
Tu te souviens de Bill ? je demande.
Le type de Bagdad Café ?
Oui. Quand il chante.
Ramak hoche la tête.
C’est comme la rencontre d’Ulysse avec les sirènes.
Bill est une sirène ?
Peut-être que c’est un anthropophage.
Encore ? il dit en mastiquant, tandis qu’une phalène tourne lentement au-dessus de mon assiette posée sur le trottoir.
Les sirènes sont anthropophages, j’explique. Quand Ulysse se fait attacher pour pouvoir les écouter, il constate que les rochers tout autour sont jonchés d’os, ceux des marins qui se sont jetés à la mer pour les rejoindre.
Tu ne manges pas ? demande Ramak, toujours en mastiquant, et en chassant la phalène qui vole au-dessus de mon assiette.
Je n’ai plus faim.
Je peux ?
Oui, je réponds, et il fait alors glisser mes pâtes dans mon assiette et se remet à manger.
Ulysse sait que son désir de chant, d’enchantement est lié au danger, je reprends. Car être confronté au merveilleux est une chose qui déchiquette, dépèce, démembre : une chose qui dévore. Le merveilleux emprisonne, il prend en otage, se nourrit de l’émerveillé.
Tout en continuant à manger, Ramak fait oui de la tête.
Et nous, au fond, qu’attendons-nous d’un voyage ? je demande.
L’émerveillement, il marmonne en déglutissant. Puis il s’arrête, pose son assiette et me regarde fixement. Peut-être que tu as raison, il concède.
Je veux être dévoré par le voyage, je conclus.
Ramak se lève et plonge dans la pénombre du coffre de la voiture.
En attendant, tu veux un peu de gâteau ?
Je n’arrive pas à comprendre si le ton de sa question est ironique, mais j’accepte la proposition. Il sort du coffre les décombres de l’anniversaire, il m’en tend une motte, je l’observe, je lève les yeux vers l’entrelacs sombre de branches de l’autre côté du parking, les petites lumières qui sont le blanc des yeux, les bruits qui sont des pas dans la nuit, puis en une bouchée, je brise la carapace vernie et la génoise, je sens le sucre, le sable, le talc et la saveur noire qu’a tout émerveillement.
Published March 6, 2017
© 2016 Quodlibet
© 2016 Humboldt
© 2016 Specimen
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Nel parcheggio di un motel di Marfa al calare della notte, Giorgio Vasta e Ramak Fazel, il fotografo che lo accompagna per i deserti e le ghost town degli Stati Uniti, si trovano a discutere, mentre preparano un piatto di maccheroni su un fornello da campo, di antropofagia e del senso ultimo del viaggio. Il “10 ottobre” non è che una delle tante tappe di un libro magistralmente orchestrato, nel quale lo scrittore e i suoi compagni di viaggio diventano altrettanti personaggi di una narrazione che attraversa incessantemente i confini tra scrittura documentaristica e fiction, riflessione e autobiografia.
Absolutely Nothing è il quinto volume della collana di scritti di viaggio pubblicata in collaborazione da Humboldt e Quodlibet. Ringraziamo l’autore e gli editori per averci concesso di riprodurre questo estratto.
While cooking macaroni on a camp stove in the darkening parking lot of a motel in Marfa, Texas, Giorgio Vasta and photographer Ramak Fazel engage in a passionate discussion about anthropophagy and the ultimate meaning of travelling. “10 ottobre” is but one of many stops in a masterfully orchestrated book, where the Italian writer and his fellow travellers become characters in a narration that continuously crosses the borders between reportage and fiction, essay and autobiography.
Absolutely Nothing is the fifth volume of a travelogue series jointly published by Humboldt and Quodlibet. We would like to thank the author and publishers for kindly granting us permission to reproduce this excerpt.
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