Ambrì – fàura from Tarmacadam: Ventuno incantesimi
Written in Italian by Vanni Bianconi
a Malù
Ambrì è un paesino dell’Alta Leventina, frazione di Quinto, ai piedi del Gottardo e schiena contro schiena col mondo germanico d’oltralpe. Anni fa, osservando come linee di un pentagramma le vie di comunicazione che rigano il fondo di questa valle a U, ampia e industriale, avevo tentato di comporre la partitura dei rumori di Ambrì: lo scorrere del fiume Ticino; lo scorrere del traffico autostradale, quando scorre; i rombi di varia cilindrata, dei piper privati o dei grossi aerei da paracadutismo sul macadam della pista di aviazione ex militare; i treni, che hanno ripreso a fermarsi in stazione. Non ricordo quale fosse la quinta linea, forse la strada cantonale, o i cavi dell’alta tensione dalla centrale idroelettrica del Ritom. Ora comunque dovrei sostituirla con quella nuova, che invisibile ha un impatto su tutte le altre, il tunnel dell’alta velocità, la ferrovia di pianura attraverso le Alpi che ha avvicinato Bellinzona e Zurigo, allontanato Ambrì da entrambe.
Ognuna di queste vie, a suo tempo, ha marcato profondamente la valle e il paese, i segni nuovi obliterano i precedenti e rimangono le carcasse, i mastodonti: il sanatorio, dove ora villeggiano le capre dagli occhi matti, e gli alberghi fatiscenti del Grand Tour; i complessi industriali metallurgici abbandonati, i paesini da cui gli operai italiani se ne sono andati, quasi tutti gli abitanti se ne sono andati, mentre arrivano rifugiati coi permessi provvisori; gli hotel e i ristoranti chiusi lungo la cantonale, e qualcuno che ricorda i balli in piazza coi turisti provenienti da tutta Europa che pernottavano in paese per valicare il Passo del Gottardo l’indomani; le stazioni di servizio prima di infilarsi nel tunnel autostradale; gli sterrati dove fino a poco fa stavano i dormitori prefabbricati per gli operai del nuovo tunnel, venuti da tutto il mondo e ripartiti chissà per dove, e le geometrie regolari delle colline di materiali di scavo. Oggi, invece, scelgo un’altra linea per completare il pentagramma. Non è propriamente una via di comunicazione, ma è percorsa dalle bestie selvatiche e comunica eccome, a partire dal suo nome. È la faura.
In italiano, scivolando da sdrucciola a piana, richiama subito “paura”, invece è un bosco che protegge il paese: “bosco posto sotto bandita, e più precisamente di una bandita perpetua, stabilita a protezione dell’abitato contro i possibili scoscendimenti del monte”, la definisce Carlo Salvioni, e spiega come derivi dal latino fabula (“parola”) ma perdendo i significati del termine latino per acquisire il senso di “ciò che viene pattuito, deciso” del germanico mahal mâl, che i longobardi traducevano appunto con “fabula”.
Il senso germanico impresso sul termine latino collega i due mondi che qui spingono l’uno contro l’altro come le placche, europea e africana, che hanno generato il Gottardo. Ma un confine, fisico, culturale, pur scosceso quanto questo, è posto di incrocio, di
innesto. Il dialetto di Ambrì conosce dittonghi di vocali chiuse che non ho sentito in nessun’altra regione d’Italia, mentre sono diffusi tra i lupi e gli svizzeri tedeschi. In paese ci sono case con la facciata di tasselli di legno a squama di pesce, tetti a scandole, chalet di legno nero. Nei bar, quelli ancora aperti, ci sono tavoli a cui non è concesso sedersi.
E la fàura è a sua volta un luogo di confine, dove mondi diversi si incontrano. “Vei sü na creatüra pa la fàura”, “Vess sü par la fàura” vuol dire essere incinte, una creatura creata e creatrice. In particolare, la Fàura di Varenzo è il mondo della luna (o la sua versione a chilometro zero), dove stanno i bebè prima di venire al mondo, a questo mondo. “Ti ti sévat amò int pala Faura da Varenz a fè scuìtt”: non eri ancora nato.
La fàura è anche nel titolo di un libro di poesie di Alina Borioli, maestra di Ambrì che, diventata cieca, riceveva i ragazzini del paese, tra cui mia mamma, e raccontava loro storie e leggende.
La mia fàura, quella oltre il prato che sale ripido dietro casa, il bosco sul monte cosmico dove corro a quattro zampe in salita ed eventi strani e magici si manifestano a me e a chi mi sta vicino, ha un nome specifico. Me l’ha rivelato un vecchietto dagli occhi azzurro ghiaccio o azzurro cieco, che non avevo mai visto prima di allora, né ho mai più rivisto dopo. Avevo passato un mese senza sole, ad Ambrì, me ne restavano altri due per finire la tesi di laurea, i tre mesi in cui il sole non arriva mai in paese (malgrado il suono luminoso, Ambrì viene da ombrìa, “ombra”). Il vecchietto si è fermato a fare due chiacchiere, e mi ha detto che questa è la Fàura dei Morti. Di nuovo l’incrocio, l’innesto di prima e dopo la vita, di paura e protezione insieme.
Nei giorni in cui sono venuto qui, sotto la fàura, per scrivere questo testo, è morto un amico della mia innamorata, un illustratore, in Brasile. Una notte mentre lei dormiva, se dormiva, lui disegnava con foga, rumorosamente, accanto a lei – l’ha disegnata, come si era ripromesso di fare in vita. Poi ha smesso e le ha fatto scegliere una sfera colorata tra quattro diverse.
Nei giorni in cui finisco questo racconto, una mia amica risale la china della fàura, piano come quando le cure sono solo palliative.
Sotto la volta celeste senza una nuvola, lancinante come ogni ago degli abeti, l’acqua di un ruscello e ogni metà foglia, dalla fàura rimbombano come vento di tempesta il traffico autostradale e i lavori in corso.
Nella Fàura dei Morti c’è un’altra linea di comunicazione che ogni giorno si sposta, quella tra la luce e l’ombra sul crinale della montagna, che gradualmente torna a salire d’autunno, o finalmente si abbassa in primavera, e da un giorno all’altro cambiano i centimetri di bosco, o di bianco se c’è la neve conservatrice, fino ad arrivare al prato e poi al paese, dove forse anche le persone cambieranno un po’.
Le persone di qui possono cambiare, almeno di indirizzo. Io vivo a Londra da dieci anni ma, come se riconoscessi lo stesso etimo remoto in parole diverse, straniere, la fàura rimane un metro che mi aiuta a capire altri luoghi, fisici e non.
Il verbo “capire” viene dal latino capere (“prendere”), e così il verbo “concepire”, ma questo, preceduto dal prefisso “con-”, diventa “ricevere”: accogliere nell’animo, accogliere nell’intelletto. Prendere e ricevere, gesti connessi e opposti, come i due lati di un confine. Londra, e gli altri luoghi dove vivo o sono di passaggio, cerco di capirli, carpirli. Solo questa fàura riesco a concepirla, mi riempie come una conca ogni volta che sono di ritorno.
Cerco mia figlia, di otto anni, londinese. Non è attorno alla casa. È quasi in cima al prato, quando salgo verso di lei, lei sale ancora, leggera ma con passi più fermi di quelli che muove sull’asfalto, dove tende a vorticare; passa il limitare del bosco e da sola sale in linea retta e ripida nella fàura. Forse la seguo – forse concepisce questa poesia, sulla fàura, e i morti nostri e i suoi vivi:
Versante
Ti ritrovi. La pioggia per averli
scavati segue i sentieri più ripidi,
quelli obliqui i cervi. Tu se ti perdi
scegline di sinuosi, di invisibili
sotto anni e anni di bosco. Ribattili.
Ascolta, i passi pronunciano sillabe,
provale, sono brevi, dei mirtilli,
dei nomi. Grida se un nome ti assilla.
I licheni cresciuti sulle lettere
possono renderle irriconoscibili:
sono quelle di sempre, non temere,
l’Impronunciabile è l’Impronunciabile
(ma se si agita entro la roccia amniotica,
strepita il legno il tuo alpe si scoscia)
Published February 13, 2024
Excerpted from Vanni Bianconi, Tarmacadam: Ventuno incantesimi, Nottetempo, Milano 2021
© Nottetempo 2021
Ambrì – fàura from Tarmacadam: Ventuno incantesimi
Written in Italian by Vanni Bianconi
Translated into French by Florence Courriol
à Malù
Ambrì est un petit village de la vallée de la haute Léventine, sur la commune de Quinto au pied du Gothard, placé dos à dos avec le monde germanique transalpin. Il y a des années, j’observais les voies de communication comme les lignes d’une portée striant le fond de cette vallée en U, vaste et industrielle, et j’avais alors tenté de composer la partition des bruits d’Ambrì : le flux de la rivière du Tessin, le flux de la circulation autoroutière – quand c’est fluide –, les vrombissements de toutes sortes de cylindrées, des Piper privés ou des gros avions de parachutisme sur le macadam de l’ancienne piste d’aviation militaire, puis les trains qui s’arrêtent désormais à nouveau en gare. Je ne me souviens plus de la cinquième ligne, peut-être était-ce la route cantonale ou alors les câbles haute tension de la centrale hydroélectrique du Ritom. En tous cas, je devrais aujourd’hui la remplacer par cette nouvelle ligne invisible mais qui a un impact sur toutes les autres : le tunnel de la liaison ferroviaire à grande vitesse qui, depuis la plaine, traverse les Alpes et a rapproché Bellinzona et Zurich en éloignant Ambrì de l’une comme de l’autre.
Toutes ces voies de communication, à leur époque, ont profondément marqué la vallée et le village. Les nouvelles traces effacent progressivement les précédentes, et ne restent que les carcasses, les mastodontes : le sanatorium, où campent maintenant les chèvres aux yeux fous, les hôtels décrépits du Grand Tour, les complexes métallurgiques industriels à l’abandon, les petits villages qu’ont quittés les ouvriers italiens – presque tous les habitants sont partis, et ce sont à présent des réfugiés qui arrivent avec des permis de séjour provisoires –, les hôtels et les restaurants qui ont fermé le long de la route cantonale – d’aucuns se souviennent des bals sur la place du village où les touristes arrivaient de l’Europe entière pour y passer la nuit et franchir le col du Gothard le lendemain, les stations service avant de s’engager dans le tunnel autoroutier, les chemins de terre où se trouvaient jusque très récemment les dortoirs préfabriqués pour les ouvriers du nouveau tunnel en provenance du monde entier, repartis dieu sait où, enfin les géométries régulières des collines utilisées comme carrières. C’est finalement une autre de ces voies que je choisis aujourd’hui pour compléter cette portée. Ce n’en est pas une au sens propre mais elle est parcourue par des bêtes sauvages et elle communique, et comment ! À commencer par son nom. C’est la faura.
En italien, si au lieu de tomber sur l’antépénultième, l’accent glisse sur l’avant-dernière syllabe, cela évoque tout de suite la paura, la peur, alors que c’est une forêt qui protège le village : « forêt soustraite à la chasse, aire protégée permanente établie dans un but de protection de l’habitat contre les potentiels éboulements de la montagne », voilà comment la définit Carlo Salvioni, qui explique également qu’elle provient du mot latin fabula (« mot ») mais, en passant par le germanique mahal mâl (que les Lombards traduisaient précisément par « fabula ») ce mot perd le sens qu’il possédait dans la langue classique pour revêtir la signification de « ce qui est convenu, décidé ».
Le sens germanique qui est venu se coller sur le terme latin relie les deux mondes qui se heurtent ici l’un à l’autre comme les plaques – européenne et africaine – qui ont donné naissance au Gothard. Mais une frontière physique, culturelle, aussi escarpée soit-elle, comme c’est le cas ici est, malgré tout, un lieu de croisement, un lieu de jonction. Le dialecte d’Ambrì possède des diphtongues de voyelles fermées que je n’ai entendues dans aucune autre région d’Italie, tandis qu’elles sont répandues parmi les loups et les Suisses allemands. Au village, il y a des maisons à façades faites en chevilles en bois disposées en écailles de poisson, des toits couverts de bardeaux, des chalets en bois noir. Dans les cafés, du moins ceux qui sont encore ouverts, il y a des tables où il n’est pas permis de s’asseoir. La fàura est également un lieu de frontière, où des mondes différents se rencontrent. “Vei sü na creatüra pa la fàura”, “Vess sü par la fàura” signifie être enceintes, une créature créée et créatrice. En particulier, la Fàura de Varenzo est le monde de la lune (enfin, sa version au kilomètre zéro) où se trouvent les bébés avant de venir au monde, en ce monde. “Ti ti sévat amò int pala Faura da Varenz a fè scuìtt” : tu n’étais pas encore né.
La fàura, on la rencontre aussi dans le titre d’un recueil de poèmes d’Alina Borioli, cette institutrice d’Ambrì qui, devenue aveugle, recevait chez elle les enfants du village, dont ma mère, et leur racontait des histoires et des légendes.
Ma fàura, celle qui se situe au delà du pré en pente raide derrière la maison, la forêt sur le mont cosmique où je grimpe à quatre pattes en courant et où des faits étranges et magiques se manifestent à moi et à mon entourage, a un nom bien spécifique. C’est un vieillard aux yeux d’un bleu glacial ou d’un bleu aveugle qui me l’a révélé. Je ne l’avais jamais vu au village et ne l’ai jamais plus revu par la suite. J’avais passé à Ambrì un mois sans soleil, il m’en restait encore deux pour terminer mon mémoire de licence – les trois mois où le soleil ne parvient jamais au village (malgré sa sonorité lumineuse, Ambrì vient du terme ombrìa, qui signifie « ombre »). Le vieil homme s’est arrêté pour faire un brin de causette et il m’a dit qu’ici, c’était la Fàura dei Morti : à nouveau ce croisement, cette jonction entre un avant et un après la vie, entre la peur et la protection tout à la fois.
Au moment où je suis venu ici, sous ma fàura, pour écrire ce texte, un ami de mon amoureuse est mort : un illustrateur qui vivait au Brésil. Une nuit, tandis qu’elle dormait – si elle dormait – lui dessinait avec fougue, bruyamment, à côté d’elle ; il l’a dessinée, comme il s’était promis de le faire lorsqu’il était en vie. Puis il a cessé et lui a fait choisir une sphère colorée parmi quatre.
Au moment où je termine ce récit, une amie remonte la pente de la fàura, doucement, lentement, comme lorsque les soins sont seulement palliatifs.
Sous la voûte céleste sans un nuage, acérée comme chaque aiguille de sapin, comme l’eau d’un ruisseau et chaque moitié de feuille, depuis la fàura résonnent comme un vent de tempête les bruits de la circulation autoroutière et des travaux en cours.
Dans la Fàura dei Morti, il y a une autre ligne de communication qui chaque jour se déplace, c’est celle qui se trouve entre l’ombre et la lumière sur la crête de la montagne : une ligne qui se met à remonter progressivement l’automne ou qui descend enfin au printemps et, de jour en jour, ce sont les centimètres de forêt – ou bien de blanc si c’est la saison de la neige conservatrice – qui changent jusqu’à arriver au pré, puis au village, où les gens eux aussi changeront peut-être un peu.
Les gens d’ici peuvent changer, du moins d’adresse. Je vis à Londres depuis dix ans mais, comme si je reconnaissais le même étymon lointain dans des mots différents, des mots étrangers, la fàura reste un repère qui m’aide à comprendre d’autres lieux, qu’ils soient physiques ou pas.
Le verbe italien capire (« comprendre ») vient du latin capere (« prendre ») et de même le verbe concepire (« concevoir ») mais ce dernier, précédé du préfixe latin « con- », prend le sens de « recevoir » : accueillir dans son esprit, accueillir dans son intellect. Prendre et recevoir, des gestes liés et opposés, comme les deux côtés d’une frontière. Londres et les autres lieux où je vis et où je suis de passage, je tente de les comprendre, de les prendre. Il n’y a que cette fàura que je parviens à concevoir, elle me remplit comme une conque chaque fois que j’y reviens. Je cherche ma fille, huit ans, londonienne. Elle n’est pas là autour de la maison. Elle est tout en haut du pré ou presque, et quand je monte vers elle, elle monte encore, toute légère mais d’un pas plus ferme que celui qu’elle a sur l’asphalte, où elle a tendance à tournoyer. Elle franchit la lisière du bois et, toute seule, grimpe en ligne droite et raide dans la fàura. Je la suis – peut-être –, et peut-être conçoit-elle cette poésie, sur la fàura, et sur nos morts et ses vivants :
Versant
Tu te retrouves. La pluie qui les a
creusés suit les sentiers les plus escarpés,
les cerfs, les plus tortueux. Toi, si tu te perds,
choisis-en de sinueux, d’invisibles
enfouis sous des années, des années de forêt. Arpente-les.
Écoute, les pas prononcent des syllabes,
vas-y, elles sont brèves, des myrtilles,
des noms. Crie si un nom t’obsède.
Les lichens qui ont poussé sur les lettres
peuvent les rendre méconnaissables :
ce sont celles de toujours, ne crains rien,
l’Imprononçable est l’Imprononçable
(mais s’il s’agite dans la roche amniotique,
hurle le bois ton Alpe se dénude)
Published February 13, 2024
© Vanni Bianconi
© Specimen
Ambrì – fàura from Tarmacadam: Ventuno incantesimi
Written in Italian by Vanni Bianconi
Translated into German by Barbara Sauser and Julia Dengg
für Malù
Ambrì ist ein Dorf in der oberen Leventina, Gemeinde Quinto, am Fuß des Gotthardmassivs gelegen, Rücken an Rücken mit der deutschsprachigen Welt jenseits der Alpen. Vor einigen Jahren habe ich die Verkehrswege, die dieses breite, u-förmige Industrietal durchziehen, einmal als Notenliniensystem betrachtet und versucht, eine Partitur der Geräusche von Ambrì zu schreiben: das Fließen des Ticino; das Fließen des Autobahnverkehrs, wenn er denn fließt; der je nach Hubraum unterschiedliche Lärm privater Pipers und großer Maschinen für Fallschirmspringer auf dem Asphalt des ehemaligen Militärflugplatzes; die Züge, die mittlerweile wieder halten. Welches die fünfte Linie war, weiß ich nicht mehr, die Kantonsstraße vielleicht oder die Hochspannungsleitungen vom Wasserkraftwerk Ritom her. Jetzt müsste ich sie ohnehin durch eine neue ersetzen, die unsichtbar alle anderen beeinflusst, nämlich durch den Hochgeschwindigkeitstunnel, die Alpenflachbahn, die Bellinzona und Zürich aneinander angenähert und Ambrì von beiden weggerückt hat.
Jeder dieser Verkehrswege prägte Tal und Dorf seinerzeit zutiefst, die neuen Zeichen verwischen die vorangegangenen, zurück bleiben Gerippe, Kolosse: Das Sanatorium, wo nun irräugige Ziegen die Sommerfrische genießen, zerfallende Grand-Tour-Hotels; ehemalige metallurgische Industrieanlagen, Dörfer, die von den italienischen Arbeitern wieder verlassen wurden, die von fast allen verlassen wurden, während Migranten mit provisorischen Aufenthaltsbewilligungen ankommen; geschlossene Hotels und Restaurants entlang der Kantonsstraße und ein paar wenige Leute, die sich noch an die Tanzabende auf dem Dorfplatz erinnern, mit Touristen aus ganz Europa, die im Dorf übernachteten, um am nächsten Tag den Gotthardpass zu überqueren; die Tankstellen, bevor man in den Autobahntunnel fährt; die Schotterflächen, auf denen bis vor Kurzem Wohncontainer für die Tunnelarbeiter standen, angereist aus der ganzen Welt und wer weiß wohin wieder verschwunden, und die regelmäßige Geometrie der Hügel aus Aushubmaterial. Heute will ich das Notenliniensystem aber mit einer anderen Linie vervollständigen. Keinem Verkehrsweg im eigentlichen Sinn, er wird aber von Wildtieren genutzt und schafft schon allein mit seinem Namen Verbindungen. Die fàura.
Verschiebt man die Betonung von der dritt- auf die zweitletzte Silbe, erinnert das Wort im Italienischen unweigerlich an paura, «Angst», dabei handelt es sich um einen Wald, der das Dorf schützen soll: «Bannwald, genauer gesagt unter immerwährenden Bann gestellter Wald, der Siedlungsgebiete vor möglichen Bergrutschen schützt», so definierte Carlo Salvioni den Begriff und erklärte, er leite sich vom lateinischen fabula («Wort») ab, hätte jedoch dessen ursprüngliche Bedeutungen verloren und dafür den Sinn «Vereinbartes, Beschlossenes» des germanischen mahal, mâl angenommen, das die Langobarden mit besagtem fabula übersetzt hätten.
Der auf den lateinischen Begriff aufgepfropfte germanische Sinn verbindet die beiden Welten, die hier gegeneinanderstoßen wie die europäische und die afrikanische Platte, was zur Bildung des Gotthardmassivs geführt hatte. Eine Grenze, egal ob physisch oder kulturell, ist, selbst wenn sie so abschüssig ist wie diese hier, ein Ort der Überschneidung, der Verbindung. Der Dialekt von Ambrì kennt geschlossene Diphthonge, wie ich sie in keiner anderen italienischsprachigen Region gehört habe, während sie unter Wölfen und Deutschschweizern verbreitet sind. Im Dorf gibt es Häuser mit Fassaden aus Schuppenschindeln, Schindeldächer, Chalets aus schwarzem Holz. In den Bars, die überdauert haben, gibt es Tische, an die man sich nicht setzen darf.
Auch die fàura ist ein Grenzgebiet, in dem verschiedene Welten aufeinandertreffen. «Mit einem Geschöpf in der fàura oben sein», «in der fàura oben unterwegs sein» bedeutet, ein Kind zu erwarten, ein erschaffenes und erschaffendes Geschöpf zu sein. Speziell die fàura von Varenzo gilt als Welt hinter den Sternen (beziehungsweise eine Nahvariante davon), wo sich die Babys aufhalten, bevor sie auf die Welt, in unsere Welt kommen. «Da warst du noch in der fàura am Reisig sammeln»: Du warst noch nicht geboren.
Die fàura taucht auch im Titel eines Gedichtbands von Alina Borioli auf, einer Lehrerin aus Ambrì, die, als sie später erblindete, bei sich zu Hause Dorfkinder empfing, darunter meine Mutter, und ihnen Geschichten und Legenden erzählte.
Meine fàura oberhalb der steilen Wiese hinter dem Haus, mein Wald am kosmischen Berg, durch den ich auf allen Vieren hochflitze und in dem mir und mir nahen Menschen Merkwürdiges und Magisches widerfährt, hat einen besonderen Namen. Verraten hat ihn mir ein alter Mann mit eisblauen oder blindblauen Augen, den ich noch nie gesehen hatte und auch nie mehr wiedersah. Ich hatte einen sonnenlosen Monat in Ambrì verbracht, zwei weitere standen mir noch bevor, ich schrieb die Abschlussarbeit für die Universität, es waren die drei Monate, in denen die Sonne nie ins Dorf gelangt (trotz des hellen Klangs kommt Ambrì von ombrìa, «Schatten»). Der alte Mann blieb stehen, um sich ein wenig mit mir zu unterhalten, und sagte, das sei die fàura dei morti, der Totenwald. Erneut Überschneidung, Verbindung zwischen dem, was vor und was nach dem Leben ist, zwischen Angst und zugleich Schutz.
In den Tagen, in denen ich hier, unterhalb der fàura, weile, um diesen Text zu schreiben, ist in Brasilien ein Freund meiner Freundin gestorben, ein Illustrator. Eines Nachts saß er, während sie schlief, falls sie denn schlief, neben ihr und zeichnete geräuschvoll und mit großem Eifer, zeichnete sie ab, wie er es zu Lebzeiten immer vorgehabt hatte. Dann hörte er auf und ließ sie eine von vier verschiedenfarbigen Kugeln wählen.
In den Tagen, in denen ich diese Erzählung fertigschreibe, steigt eine Freundin von mir den Hang der fàura hoch, so langsam, wie es geschieht, wenn Behandlungen nur noch palliativ sind.
Unter dem wolkenfrei blauen Himmel, gestochen scharf wie jede Tannennadel, das Wasser eines Bächleins und jedes halbe Blatt, hallen von der fàura her der Autobahnlärm und die laufenden Bauarbeiten wider als wäre es ein Sturmwind.
In der fàura dei morti gibt es eine weitere Verbindungslinie, die sich jeden Tag verschiebt, nämlich jene zwischen Licht und Schatten am Berg, die im Herbst schrittweise ansteigt und im Frühling endlich sinkt. Von Tag zu Tag ändern sich die Zentimeter Wald oder, falls schützendes Weiß liegt, Schnee, bis die Linie die Wiese und dann das Dorf erreicht, in dem sich vielleicht auch die Menschen ein wenig verändern.
Die Menschen von hier sind zu Veränderungen fähig, zumindest was die Adresse betrifft. Ich lebe seit zehn Jahren in London, aber für mich bleibt die fàura ein Maß, das mir hilft, andere Orte, physische und nicht physische, zu begreifen, als ob ich in anderen, fremden Wörtern dasselbe urzeitliche Etymon zu erkennen vermöchte.
Das Verb capire, «begreifen», kommt vom lateinischen capere, «ergreifen», dasselbe gilt für concepire, das durch seinen Präfix aber zu «empfangen» wird: geistig, mit dem Verstand aufnehmen. Ergreifen und empfangen, zwei miteinander verbundene und gegensätzliche Dinge, wie die beiden Seiten einer Grenze. Ich versuche London und die anderen Orte, an denen ich lebe oder mich vorübergehend aufhalte, zu begreifen, sie mir zu greifen. Nur diese fàura vermag ich zu empfangen, sie füllt mich jedes Mal auf wie eine Senke, wenn ich zurückkehre.
Ich halte Ausschau nach meiner Tochter, acht Jahre alt, Londonerin. Ums Haus herum ist sie nicht. Sie ist fast ganz oben auf der Wiese, und als ich ihr folge, steigt sie noch weiter hinauf, leichtfüssig, aber mit festeren Schritten als auf dem Asphalt, wo sie eher ein Wirbelwind ist; sie überschreitet die Schwelle zum Wald und geht allein geradeaus die steile fàura hoch. Vielleicht gehe ich ihr nach, vielleicht empfängt sie dieses Gedicht über die fàura und unsere Toten und ihre Lebenden:
Wandernd
Wieder da du. Der Regen der sie
furchte folgt den steilsten Wegen,
den Umwegen das Wild. Du wenn du dich
verirrst, geh die gewundenen, die unsichtbaren
unter Jahren und Jahren von Wald. Und wieder.
Lies, die Schritte sprechen Silben,
kost sie, sind klein, Preiselbeeren sie
und Namen. Schrei, lässt dich einer nicht los.
Über die Buchstaben wuchernde Flechten
lassen sie vielleicht unlesbar werden:
sie sind die von früher, fürchte dich nicht,
das Unaussprechliche ist das Unaussprechliche
(doch wenn es sich regt im Amnionfels,
brüllen die Bretter die Alp zerschmettert).
Published February 13, 2024
© Vanni Bianconi
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