From September the land waits. It seems to hold itself; the summer migrants are restless with leaving and the winter migrants have not yet arrived, waiting in their own summer places further north for the shortening of days, the tilt of the Earth towards winter. Each species its own mystery, reading the land according to its own way of knowing.

I hear the geese come in groups, honking their arrival, raw and nasal, settling into their winter territories – patches along the coastline, estuaries, nearby fields, feeding on roots, the rhizomes of aquatic plants, beetroots leftover from harvests.

The day gathers, and the salt marsh shows itself, a puzzle of grassy mounds among channels, thinning and widening, curling back on themselves, their exposed sides polished to a sheen by the layering of silt and where the water lurks it throws back the growing light. A little egret moves out slowly, on hesitant backwards-bending legs, its whiteness luminous and ghostly in the meagre light. 

Morecambe Bay sands are in constant movement. As river channels shift they leave lyrings in their wake – a dialect word meaning trenches half-filled with sediment. Beyond this, the map reads like a litany of lost words: Crook Skear, Plover Scar, Long Tongue, Thurnham Moss. Skear is another dialect word describing a bank of shingle exposed at low tide; moss comes through many Germanic languages meaning bog or peat-bog. Remnants of languages and dialects layer the place. A palimpsest where word and land collide; much of it in the process of disappearing.

Walking to the Abbey ruins along long lanes, there is a ram-shackled look to the few buildings, a sense almost of temporariness, a makeshift clinging to the landscape. The red Triassic sandstone used to build the Abbey has been repurposed in farm buildings and sea walls. The lower part of the promontory is reclaimed marshland, drained for pastures; a system of dykes and trenches mark the edges of fields, lined with hawthorn or filled with the tall stems and feathered heads of sea rush, dried out by exposure to weather, like ghosts of themselves defying the wind. All that now remains of the Abbey is the chapter-house and portions of the nave walls, the infirmary chimney, scattered fragments of stone. The ruin attracts, disappearing into the grass, attesting to the destructive effects not only of time but of successive ideologies, bent on removing evidence of former ways of life. Our history is criss-crossed with it, a reminder that not only architecture, but all cultural and social aspirations must eventually succumb. The ruin holds its own sublime meaning – that sense that tilts towards our own mortality. That everything solid melts into air.

A small skein of pink-footed geese flies in overhead; there have been thousands of them here in the past few weeks, a few greylag and Canada geese in their number. They roost in the shallows to avoid predators and fly in after dawn to feed on leftover potato tubers. You can hear them in fields round about, re-establishing community, relaying information and hierarchies. Their noise a continual winter presence. The shrill piping of a curlew rises to the east and I look up to see several fly into the field next to the Abbey, to probe at the ground with their long curved beaks. At high tide, large flocks of knot fly in looped formations above the water’s edge in the pale grey and white of their winter plumage. They come to settle on the bulwark, slow-motion flicker, their wings catching the sunlight like a hundred metallic butterflies coming in to land. They have followed ancient routes these wintering birds, their instincts and evolution much older than our own.

It feels isolated this stretch, remote – an end of the world kind of place, though it is only a 25 minute drive to the nearest town. I can imagine the Abbot of Shap coming to inspect the Abbey in 1496, indignant, as his letter in Lancaster City Museum displays, at having to trek out, hiring a guide to cross the marsh safely, having heard of the ‘perils’ of the landscape. Inland, the system of dykes tells the story of our attempt to control water, of draining the lower parts, and the bulwark around the coastline tells of the attempt to hold the land in place, some of it has already been lost to the sea, yet these ancient wetlands, previously seen as valueless, have huge potential in sequestering carbon and acting as a buffer to rising sea levels – a basin to hold onto water, if left as wetlands, as well as being exemplars of biodiversity and species regeneration. Though England has lost 90% of its wetlands in the last century, and globally the picture is not much better, yet many of the winter migrants still come, instinct bound, following routes that pre-date the last Ice Ages.  How the landscape was shaped is remembered through the migratory routes of these birds, through the languages and dialects mapped onto it through time; loose lines of meanings knotted here and there, sifted – a testament written into place.

A settembre la terra aspetta. Sembra contenersi; i migratori estivi sono ansiosi di partire, i migratori invernali non sono ancora arrivati. Stanno più a nord, nei luoghi in cui hanno passato l’estate, ad attendere l’accorciarsi delle giornate, l’inclinarsi della Terra verso l’inverno. Ogni specie ha il suo mistero, e un particolare metodo conoscitivo per leggere il territorio.

Sento le oche raggrupparsi in stormi e starnazzare il loro arrivo con un verso nasale e primitivo, mentre si insediano nelle loro aree di svernamento – chiazze che si posano su litorali, estuari e campi limitrofi, nutrendosi di radici, rizomi di piante acquatiche, barbabietole rimaste dagli ultimi raccolti.

Il giorno prende forma e la palude salmastra si palesa, un puzzle di cumuli erbosi tra canali che si restringono e si riaprono avviluppandosi, gli argini esposti levigati a specchio dalla stratificazione del limo e l’acqua che, là dove si nasconde, riverbera la luce crescente. Una garzetta si muove lentamente, le zampe ricurve all’indietro esitanti, il suo candore luminoso e spettrale nel debole chiarore. 

La sabbia della baia di Morecambe è in costante movimento. Nel cambiare il proprio corso, i canali fluviali seminano una scia di fossati mezzi pieni di sedimenti, che nel nostro dialetto si chiamano lyring. Oltre a questo, molti altri nomi sulla mappa formano una litania di parole perdute: Crook Skear, Plover Scar, Long Tongue, Thurnham Moss. Anche skear è un termine gergale che descrive un argine di ghiaia esposto alla bassa marea, mentre moss è retaggio di diverse lingue germaniche e significa palude o torbiera. Questo luogo è stratificato da resti di lingue e dialetti. Un palinsesto in cui terra e parola collidono, quasi del tutto in procinto di scomparire.

Camminando verso le rovine dell’abbazia lungo viottoli infiniti, i pochi edifici visibili hanno un aspetto diroccato, quasi un senso di provvisorietà, un espediente aggrappato al paesaggio. L’arenaria rossa del Triassico con cui fu costruita l’abbazia è stata riutilizzata per gli edifici agricoli e le dighe marine. La parte più bassa del promontorio è una palude bonificata, drenata per il pascolo. Un sistema di dighe e fossati segna i margini dei campi, fiancheggiati da biancospini o riempiti con gli alti fusti e le pannocchie piumate del giunco marino, riarsi dalle intemperie, come fantasmi di sé che sfidano il vento. Dell’abbazia oggi restano solo la sala capitolare, porzioni di pareti della navata, il camino dell’infermeria, frammenti di pietra sparsi. Le rovine attraggono, con il loro scomparire nell’erba, attestano gli effetti distruttivi del tempo ma anche delle ideologie successive, impegnate e attente a rimuovere le prove dei modelli di vita precedenti. La nostra storia ne è solcata, un monito che ci rammenta che non solo l’architettura ma tutte le aspirazioni culturali e sociali prima o poi devono soccombere. Le rovine hanno un loro significato sublime, quel senso che propende verso la nostra stessa mortalità. Che tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria.

Un piccolo stormo di oche zampe rosa mi sorvola; nelle ultime settimane ne sono arrivate a migliaia, insieme ad altre specie di oche, selvatiche, canadesi. Si riposano in acque poco profonde per evitare i predatori, e non appena albeggia volano fin qui per cibarsi dei resti dei tuberi di patata. Tutt’intorno ai campi si sente starnazzare mentre ricreano la comunità, scambiandosi informazioni e gerarchie. Il loro rumore è una presenza invernale costante. L’acuto cinguettio di un chiurlo si leva a est. Alzo lo sguardo e subito ne intravedo diversi che volano nel campo accanto all’abbazia, a sondare il terreno coi loro lunghi becchi ricurvi. Stormi immensi di piovanelli maggiori arrivano con l’alta marea, volano in formazioni ad anello sfiorando il bordo dell’acqua nel grigio pallido e bianco del loro piumaggio invernale. Vengono a posarsi sull’argine, un tremolio al rallentatore, le ali che catturano la luce del sole, come centinaia di farfalle metallizzate che scendono a terra. Hanno seguito antiche rotte, questi esemplari svernanti, guidati da istinti ed evoluzioni molto più vecchi dei nostri.

Questo lembo di terra sembra isolato, remoto – un posto in capo al mondo, anche se la città più vicina è a soli venticinque minuti d’auto. Capisco bene l’indignazione dell’abate di Shap, che traspare dalla sua lettera esposta nel museo civico di Lancaster, quando nel 1496, volendo ispezionare l’abbazia e avendo sentito parlare dei “pericoli” di quel territorio, dovette assumere una guida per percorrere a piedi in sicurezza il sentiero che attraversava la palude. Nell’entroterra, il sistema di dighe racconta la storia del nostro tentativo di dominare l’acqua e bonificare le basse terre, mentre l’argine che circonda il litorale dimostra lo sforzo per tenersi la terra, di cui una parte è già stata conquistata dal mare. Eppure questi antichi acquitrini, considerati un tempo privi di valore, hanno un potenziale enorme di cattura e sequestro del carbonio e fungono da tampone contro l’innalzamento del livello del mare – un bacino idrico che, se mantenuto acquitrinoso, è anche un modello di biodiversità e rigenerazione delle specie. Nell’ultimo secolo l’Inghilterra ha perso il novanta percento delle sue zone paludose (non che il quadro globale si presenti tanto meglio), ciononostante arrivano ancora molti migratori invernali, guidati dall’istinto, seguendo rotte che precedono le ultime ere glaciali. Le vecchie forme del paesaggio rivivono attraverso le rotte migratorie di questi uccelli, attraverso le lingue e i dialetti inseriti nel tempo sulla sua mappa, fili di significati slegati, intrecciati qua e là, filtrati – un testamento scolpito nel luogo.