Kubla Khan: Or, a vision in a dream. A Fragment
Written in English by Samuel Taylor Coleridge
In Xanadu did Kubla Khan
A stately pleasure-dome decree:
Where Alph, the sacred river, ran
Through caverns measureless to man
Down to a sunless sea.
So twice five miles of fertile ground
With walls and towers were girdled round;
And there were gardens bright with sinuous rills,
Where blossomed many an incense-bearing tree;
And here were forests ancient as the hills,
Enfolding sunny spots of greenery.
But oh! that deep romantic chasm which slanted
Down the green hill athwart a cedarn cover!
A savage place! as holy and enchanted
As e’er beneath a waning moon was haunted
By woman wailing for her demon-lover!
And from this chasm, with ceaseless turmoil seething,
As if this earth in fast thick pants were breathing,
A mighty fountain momently was forced:
Amid whose swift half-intermitted burst
Huge fragments vaulted like rebounding hail,
Or chaffy grain beneath the thresher’s flail:
And mid these dancing rocks at once and ever
It flung up momently the sacred river.
Five miles meandering with a mazy motion
Through wood and dale the sacred river ran,
Then reached the caverns measureless to man,
And sank in tumult to a lifeless ocean;
And ’mid this tumult Kubla heard from far
Ancestral voices prophesying war!
The shadow of the dome of pleasure
Floated midway on the waves;
Where was heard the mingled measure
From the fountain and the caves.
It was a miracle of rare device,
A sunny pleasure-dome with caves of ice!
A damsel with a dulcimer
In a vision once I saw:
It was an Abyssinian maid
And on her dulcimer she played,
Singing of Mount Abora.
Could I revive within me
Her symphony and song,
To such a deep delight ’twould win me,
That with music loud and long,
I would build that dome in air,
That sunny dome! those caves of ice!
And all who heard should see them there,
And all should cry, Beware! Beware!
His flashing eyes, his floating hair!
Weave a circle round him thrice,
And close your eyes with holy dread
For he on honey-dew hath fed,
And drunk the milk of Paradise.
*
Preface to the 1816 edition
The following fragment is here published at the request of a poet of great and deserved celebrityLord Byron, and, as far as the Author’s own opinions are concerned, rather as a psychological curiosity, than on the ground of any supposed poetic merits.
In the summer of the year 1797, the Author, then in ill health, had retired to a lonely farmhouse between Porlock and Linton, on the Exmoor confines of Somerset and Devonshire. In consequence of a slight indisposition, an anodyne had been prescribed, from the effects of which he fell asleep in his chair at the moment that he was reading the following sentence, or words of the same substance, in “Purchas’s Pilgrimage”: “Here the Khan Kubla commanded a palace to be built, and a stately garden thereunto. And thus ten miles of fertile ground were inclosed with a wall.” The Author continued for about three hours in a profound sleep, at least of the external senses, during which time he has the most vivid confidence, that he could not have composed less than from two to three hundred lines; if that indeed can be called composition in which all the images rose up before him as things, with a parallel production of the correspondent expressions, without any sensation or consciousness of effort. On awakening he appeared to himself to have a distinct recollection of the whole, and taking his pen, ink, and paper, instantly and eagerly wrote down the lines that are here preserved. At this moment he was unfortunately called out by a person on business from Porlock, and detained by him above an hour, and on his return to his room, found, to his no small surprise and mortification, that though he still retained some vague and dim recollection of the general purport of the vision, yet, with the exception of some eight or ten scattered lines and images, all the rest had passed away like the images on the surface of a stream into which a stone has been cast, but, alas! without the after restoration of the latter!
Then all the charm
Is broken — all that phantom world so fair
Vanishes, and a thousand circlets spread,
And each misshape the other. Stay awhile,
Poor youth! who scarcely dar’st lift up thine eyes —
The stream will soon renew its smoothness, soon
The visions will return! And lo, he stays,
And soon the fragments dim of lovely forms
Come trembling back, unite, and now once more
The pool becomes a mirror.
Yet from the still surviving recollections in his mind, the author has frequently purposed to finish for himself what had been originally, as were, given to him. Σαμερον αδιον ασωI shall sing a sweeter song tomorrow: but the to-morrow is yet to come. As a contrast to this vision, I have annexed a fragment of a very different character, describing with equal fidelity the dream of pain and disease.
–Samuel Taylor Coleridge, 1816
Published April 1, 2020
Excerpted from Samuel Taylor Coleridge, Christabel; Kubla Khan, a Vision; The Pains of Sleep, London: Printed for John Murray, Albemarle-Street, by William Bulmer and Co., Cleveland-Row, St. James’s, 1816.
Nel Xanadu alza Kubla Khan
dimora di delizie un duomo
dove Alf, il fiume sacro, scorre
per caverne vietate all’uomo
a un mare senza sole.
Dieci miglia di fertile campagna
con mura e torri furono recinte:
e c’era nel giardino un luccichio di rivi
e l’albero d’incenso era fiorito
e v’erano foreste antiche come i clivi
che abbracciavano il verde agro assolato.
Ma oh, quel cupo abisso fino al fondo
straziava la collina nel suo vello di cedri.
Era un orrido sacro ed ammaliato
come alcuno ce n’è sotto la luna
calante ove alza gemiti una donna
inquietata dal demone d’amore!
Dall’abisso in un turbine incessante,
quasi il suolo rompesse in un singhiozzo,
una polla irruente urgeva a tratti:
fra i crosci subitanei e intermittenti,
con rimbalzi di grandine o di veccia
sotto il flagello di chi tribbia, ingenti
macigni sussultavano a frammenti.
Di là, da quella stanza irta di blocchi
alto sorgeva a tratti il fiume sacro.
Cinque miglia di corso vagabondo
per boschi e valli il fiume percorreva,
poi cadeva per grotte senza fondo
tumultuoso in un oceano morto.
E rauche in mezzo a quel tumulto a Kubla
voci d’avi annunziavano la guerra!
L’ombra della chiara dimora
fluttuava sulla corrente,
indistinta l’eco arrivava
dalle grotte e dalla sorgente.
Era un raro miracolo, una casa
Su caverne di ghiaccio ed assolata!
Una fanciulla con la cetra
io vidi in sogno una volta;
era una vergine abissina,
su quella cetra suonava
e cantava dal Monte Abora.
Potessi in me risuscitare
quella viva armonia, quel canto
tale delizia inonderebbe il sangue
che a quel suono lungo e chiaro
potrei inalzarlo nell’aria
il castello di sole! le caverne di ghiaccio!
E chi l’udisse, lo vedrebbe là
e griderebbe: «Mistero! Mistero!»
gli occhi infuocati ed i capelli al vento!
Un circolo tre volte replicate
intorno a lui, chiudetegli le palpebre,
poiché manna ed ambrosia ha delibate,
il latte delibò del Paradiso.
*
Prefazione all’edizione del 1816
Il frammento che segue si pubblica qui su richiesta di un poeta di grande e meritata famaLord Byron e, per quanto riguarda il giudizio dell’autore, più come curiosità psicologica che per eventuali meriti poetici.
Nell’estate dell’anno 1797 l’autore, infermo, si era ritirato in una fattoria solitaria tra Porlock e Linton, sul lato di Exmoor del Somerset e Devonshire. A causa di una lieve indisposizione era stato prescritto un anesteticoOppio, ingerito non nella più comune forma del laudano (allora d’uso diffuso) ma allo stato puro, per effetto del quale egli si addormentò seduto mentre leggeva nel Pilgrimage di Purchas la seguente frase, o parole analoghe: “Qui il khan Kubla ordinò che fosse costruito un palazzo con annesso un imponente giardino. Così dieci miglia di terreno fertile furono circondate da un muro”.
L’autore continuò a dormire profondamente per tre ore, almeno per quanto riguarda i sensi esteriori, e in questo periodo di tempo egli ha la più viva certezza di aver composto non meno di duecento o trecento versi, se invero può dirsi composizione il sorgere davanti a lui di tutte le immagini come cose, ciascuna accompagnata dalle espressioni corrispondenti, senza alcuna sensazione o consapevolezza di sforzo.
Al risveglio gli parve di ricordare chiaramente il tutto e, prendendo carta, penna e inchiostro, subito e rapidamente mise per iscritto i versi che sono qui preservati. A questo punto fu malauguratamente chiamato fuori da una persona venuta da Porlock per affari e fu trattenuto da lui oltre un’ora, e quando tornò alla sua stanza scoprì con non poca sorpresa e delusione che, per quanto conservasse un vago e impreciso ricordo del significato generale della visione, tutto il resto, a eccezione di otto o dieci versi e immagini slegati, era svanito come le immagini sulla superficie di un corso d’acqua in cui è stata gettata una pietra, ma ahimè senza che esse si ricomponessero in seguito!
Poi l’incanto tutto
si spezza, tutto il fantastico mondo così bello
Svanisce, mille cerchi si diramano
e ognuno deforma l’attiguo. Attendi un poco,
Povero giovane che appena osi alzare gli occhi:
Presto la corrente si rifarà liscia, presto
L’immagine tornerà! Ecco, attende
E subito i vaghi frammenti di belle forme
Rivengono tremolanti, si ricompongono, e di nuovo
lo stagno si fa specchio.
Ciò nondimeno l’autore si è sovente riproposto di valersi dei frammenti che sopravvivono nella sua memoria per terminare di propria mano quel che in origine gli fu per così dire donato. Σαμερον αδιον ασωDomani canterò qualcosa di più dolce: ma il domani è ancora da venire. A contrasto con questa visione ho aggiunto un frammento di tutt’altro genere che descrive con eguale fedeltà il sogno caratteristico del dolore e della malattia.
–Samuel Taylor Coleridge, 1816
Published April 1, 2020
Poem excerpted from Samuel Taylor Coleridge, Poesie e prose, ed. Mario Luzi (Milano: Cederna, 1949, poi Milano: Mondadori, 1973)
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