From La disdetta
Written in Italian by Anna Felder
Le lezioni di canto cominciavano all’ora in cui i gatti si fanno inquieti e gli innamorati si sentono soli, all’ora in cui si aprono gli armadi di casa per cercarvi biscotti e vestiti.
Le signorine venivano a lezione in attesa di un’ora migliore, glielo si leggeva in fronte, studiavano tutta la settimana e poi davanti alla maestra si facevano sgridare: inciampavano dall’emozione, sbagliavano per l’apprensione di far bene, ridevano dal nervosismo e la maestra non accettava sbagli o negligenze: aveva alzato i prezzi dall’inizio della stagione. Le signorine volevano cantare e la maestra era lì per correggere:
– Pensare che l’avevo studiato, – protestavano ancora docili, ma la maestra non sentiva scuse.
Al pianterreno e nella stanza del microscopio si stava in ansia a sentire le scuse attraverso le pareti, qualche volta arrivavano anche in mansarda, pettinate col nastro sul chignon o coi capelli sciolti, ma in sala di musica si imparava a respirare: prima di cantare bisognava fare gli esercizi di respiro e le signorine probabilmente sbirciavano l’ora sul polso della maestra; era difficile diventar migliori.
M’inquietavo: per chi dovevo simpatizzare, per l’allieva o la maestra, mi venivano i pensieri più lontani, giravo per Vienna e trovavo lo stesso nervosismo, giravo nei bassifondi e trovavo la stessa ansia, nelle pasticcerie di gran nome e anche lì si era insoddisfatti; mi mettevo nei panni della signorina allieva di canto, la trovavo delicata e originale, senza motivo di starsene sulle spine, eppure nel più profondo di me stesso speravo che la signorina dell’ora dopo fosse più delicata e più originale ancora.
Speravo e non speravo, perché la cosa poteva anche finir male: rimanevo ad aspettare con la testa nel canto, mi stava addosso come l’erba alta, e sotto c’era lo stagno. Bisognava non muoversi di lì malgrado le inquietudini, malgrado gli incidenti a catena sulle strade provinciali: il canto dopotutto poteva servirmi in un lontano futuro, io spiavo l’acqua torbida dello stagno per vedere di passarci attraverso. L’allieva cantava. Allora capitava che un frammento di lingua latina venisse a galla quel tanto da riconoscerlo dentro il torbido dello stagno, mandava saltuari segni di tempi da venire: saliva e si dileguava simile a un relitto che cerchi il relitto compagno, Salvia splendens veniva su dal fondo e nel fondo andava a spegnersi in Nerium oleander; era un lento saliscendi nel nero opaco dell’acqua morta, qualche nome faceva la sua comparsa persino tre volte di fila oppure svaniva appena scandito. Ci si poteva anche sentire migliori.
Venne l’allieva dell’ora dopo, larga, attaccata al pavimento, con i piedi palmati di certi animali. Invece di respirare tentò qualche minuto di agganciare la voce al posto giusto come ad affrancare la camicia sui fili, un fermaglio di qua uno di là prima di sentirla fissa. La maestra la interruppe, si mise al pianoforte e riempì la tastiera di note, si sarebbe detto che tenesse in mano il cesto della biancheria da colmare fino all’orlo: c’era tutto, camicie e tovaglioli, solo che ci voleva il canto a stendere sopra il rigo la forma di un polsino, di un fazzoletto azzurro. Intervenne il canto: caddero due, tre fermagli, si ricominciò da capo mettendo in risalto il polsino, doveva essere il pezzo forte della camicia. Nulla poteva andar perduto, non un pizzo, un mordente, «ferma qui», sentivo la maestra: buttò via il cesto e fece sentire lei, poi l’allieva, poi lei di nuovo, erano pizzi di crome e semicrome fatte a macchina; ma l’allieva s’inceppò di nuovo, dovetti arrestarmi anch’io da fermo, non c’era più verso di avanzare: ero bloccato, feci il passaggio dall’inizio con l’ansietà in gola di quel punto scabroso: niente da fare, arrivavo e mi arenavo, un vero supplizio.
– Si può neanche più leggere, – borbottò il vecchio, e mi misi a odiare: odiai le allieve che non tenevano il fiato: ero sicuro del fatto mio, – se non sanno respirare,– imprecavo dentro di me, – imparino a respirare prima di perdere il loro tempo.
Le odiai in corpore, odiai quel tipo di signorina non musicale e ambiziosissima, con dietro papà e mamma a forzare il talento; avrei scommesso che studiavano ogni giorno dopo ogni pranzo e ogni cena alle ore più impossibili, che si dilettavano persino, si lasciavano prendere dalla velocità e dalla voce perché a un certo momento la voce scivolava via da sola da sembrare una delizia, papà e mamma bevevano il caffè, ed, era tutto sbagliato, tutto buttato là: finché comparivano alla lezione dopo aver attraversato le strade più pericolose, ma con l’organino in petto.
Ci si chiedeva dove si andava a finire, la maestra di sopra scuoteva la testa: non ne lasciava scappare una, chiaro, si fregava le lenti poi tirava fuori la sua, di voce, niente spettacolo, niente teatro o talento; era una voce da scrivere alla lavagna, liscia, pulita, una nota ogni, due quadretti; loro imparassero.
Le brave, le fuoriclasse, con quelle era un’altra cosa: erano due quell’anno, allieve da esami di conservatorio, una soprattutto con la pettinatura sempre diversa: cantava e d’improvviso ero in un altro cielo, mi sentivo su un cuscino, su un materassino di gomma blu: non sollevavo la testa eppure mi trovavo alto, era la sua voce a tenermi sospeso, stavo immobile e volteggiavo su quell’aria compressa, mi tiravano e io andavo non chiedetemi come, man mano più grande e più leggero; l’avevo ormai dentro, aria blu, mi cantava in corpo ed ero una serpe arrotolata in un’amaca sonnolenta, via via più alta, più allungata; mi facevo rossobruna e verde, i colori del sole cadente, per scivolare nella campagna romana; ero una scena bucolica con i buoi e le pastore anche in lontananza, in mezzo alle rovine, alle ceneri di Focione, bagnata sempre da quella luce che non si smorza; perché ero un quadro adesso, un Pussino firmato da guardare a occhi semichiusi per goderlo nell’insieme, e poi nei particolari: sapevo essere quieta vacca sdraiata, ogni nota la tenevo in me fossi uccello o riverbero d’acquitrino; io ero in cima alla voce, ero in cresta al pentagramma, l’arco del legato, il sottinteso del tenuto.
Published February 25, 2019
Excerpted from Anna Felder, La disdetta, Casagrande, Bellinzona 2002
© Edizioni Casagrande 2002
From Sous l’œil du chat
Written in Italian by Anna Felder
Translated into French by Florence Courriol-Seita
Les leçons de chant commençaient à l’heure où les chats deviennent inquiets et où les amoureux se sentent seuls, à l’heure où les placards s’ouvrent dans les maisons et qu’on y cherche des biscuits et des habits.
Les jeunes filles venaient en cours dans l’espoir d’une heure meilleure, ça se voyait sur leur visage, elles travaillaient le chant toute la semaine et puis, avec la professeure, elles se faisaient gronder : prises par l’émotion, elles trébuchaient sur des passages, soucieuses de bien faire, elles se trompaient, elles riaient nerveusement et la professeure n’acceptait point d’erreur ou de négligence. Elle avait augmenté ses tarifs depuis le début de la saison. Les jeunes filles voulaient chanter et la professeure était là pour corriger : « Et dire que je l’avais étudié », protestaient-elles encore dociles, mais la professeure de chant ne voulait entendre aucune excuse.
Au rez-de-chaussée et dans la pièce du microscope, c’est plein d’angoisse que l’on entendait filtrer les excuses à travers les murs. Quelquefois, elles parvenaient jusqu’à la mansarde, coiffées d’un ruban sur le chignon, ou bien les cheveux détachés, mais dans la salle de musique on apprenait à respirer : avant de se mettre à chanter, il fallait se soumettre aux exercices de respiration et les jeunes filles lorgnaient sans doute l’heure sur le poignet de la professeure. Il était difficile de s’améliorer.
Je m’inquiétais : avec qui devais-je sympathiser, avec l’élève ou bien avec la professeure, les pensées les plus capricieuses me venaient, je me promenais dans Vienne et je retrouvais la même nervosité, je me promenais dans les bas-fonds et je retrouvais la même angoisse, dans les pâtisseries renommées et là aussi, ce n’était qu’insatisfaction. Je me mettais dans la peau de la jeune fille, élève de chant, je la trouvais délicate et originale, elle n’avait aucune raison d’être nerveuse, et pourtant tout au fond de moi j’espérais que la jeune fille de la leçon suivante serait encore plus délicate et plus originale.
Je ne l’espérais qu’à moitié, car l’histoire pouvait tout aussi bien mal se terminer : je restais là à attendre, la tête dans le chant, il me collait à la peau, comme les hautes herbes, et au-dessous, une mare. Il ne fallait pas bouger de là, malgré les inquiétudes, malgré les carambolages sur les routes départementales. Le chant, après tout, pouvait me servir dans un avenir lointain, je guettais l’eau trouble de la mare pour voir si je pouvais passer à travers. L’élève chantait. Alors il arrivait qu’une bribe de langue latine remonte à la surface juste assez pour que je la reconnaisse dans l’eau trouble de la mare, elle envoyait par intermittence des signes des temps à venir : elle remontait puis disparaissait, semblable à une épave en quête de son compagnon de naufrage, salvia splendens arrivait des profondeurs et dans les profondeurs allait s’évaporer en nerium oleander. C’était une lente oscillation de bas en haut, dans le noir opaque de l’eau morte, quelques noms faisaient leur apparition, jusqu’à trois fois d’affilée, ou bien se dissipaient dès qu’ils avaient été articulés. On pouvait même se trouver meilleur.
L’élève de la leçon suivante arriva, massive, ancrée au sol et les pieds palmés comme chez certains animaux. Au lieu de respirer, elle tenta l’espace de quelques minutes de bloquer sa voix à la bonne tonalité, comme pour bien accrocher un chemisier au fil à linge, une pince ici et une pince par là, avant de trouver qu’elle était bien posée. La professeure l’interrompit, se mit au piano et inonda le clavier de notes, on aurait dit qu’elle tenait dans la main un panier à linge à remplir jusqu’à ras bord : il y avait de tout, des chemises et des serviettes, il n’y manquait que le chant pour étendre sur la portée la forme gracieuse d’une manchette ou d’un foulard bleu. Le chant intervint : deux, puis trois pinces tombèrent, on recommença du début en mettant en relief la manchette, ce devait être la pièce maîtresse de la chemise. Rien ne pouvait être perdu : pas la moindre dentelle, pas le moindre mordant, j’entendais la professeure qui disait « arrête-toi ici », puis elle jeta le panier et montra comment il fallait faire, puis ce fut au tour de l’élève, puis la professeure à nouveau, c’étaient des dentelles de croches et de demi-croches composées à la machine. Mais l’élève buta à nouveau, je dus m’arrêter moi aussi complètement, plus moyen d’avancer, j’étais bloqué, je répétai le passage depuis le début plein d’anxiété dans la gorge pour ce point délicat, mais rien à faire, arrivé là, j’étais paralysé, un vrai supplice.
« On n’peut même plus lire », grommela le vieux.
Et moi je me pris à les détester : à détester ces élèves qui ne réussissaient pas à maintenir leur souffle. J’étais sûr de mon fait, « si elles ne savent pas respirer, pestais-je intérieurement, qu’elles apprennent à respirer avant de perdre leur temps. »
Je les détestai en bloc, je détestai ce genre de jeunes filles pas musicales pour un sou et extrêmement ambitieuses, avec papa et maman qui étaient derrière pour forcer leur inclination. J’aurais parié qu’elles répétaient chaque jour après chaque repas du midi et après chaque repas du soir, aux heures les plus impensables, qu’elles le faisaient même avec plaisir, qu’elles se laissaient gagner par la rapidité et par la voix parce qu’à un moment donné, leur voix se laissait aller toute seule et paraissait presque un régal, papa et maman buvaient le café, et tout était faux, tout était complètement négligé. Puis elles se présentaient à la leçon après avoir traversé des routes excessivement dangereuses, mais avec un accordéon dans le cœur.
On se demandait où ça allait finir, la professeure à l’étage hochait la tête, elle ne ratait pas une occasion, elle frottait ses lunettes puis elle dégainait la sienne, de voix, et là point de spectacle, point de théâtre ni de talent ; c’était une voix de première de la classe, lisse et proprette, une note tous les deux carreaux. Elles n’avaient plus qu’à apprendre.
Avec les douées, les championnes, c’était autre chose : elles étaient au nombre de deux cette année, des élèves dignes du conservatoire, en particulier une qui se coiffait chaque fois différemment. Elle chantait et tout à coup j’étais sur une autre planète, j’avais l’impression d’être sur un coussin, sur un petit matelas gonflable bleu foncé. Je ne levais pas la tête, et pourtant je me sentais en hauteur, c’était sa voix qui me maintenait comme suspendu, j’étais immobile mais je voltigeais sur cet air comprimé, on me tirait et moi j’avançais – ne me demandez pas comment – de plus en plus fort et de plus en plus léger. Je l’avais maintenant en moi, cet air bleu foncé, il chantait dans mon corps et j’étais un serpent enroulé dans un hamac, somnolent, de plus en plus haut, de plus en plus allongé. Je devenais rouge brun et vert, les couleurs du soleil couchant, et glissais dans la campagne romaine. J’étais une scène bucolique avec des bœufs et des bergères aussi dans le lointain, au milieu des ruines, des cendres de Phocion, toujours inondée d’une lumière qui ne s’estompe pas. Car j’étais à présent un tableau, un Poussin signé qu’il fallait regarder les yeux mi-clos pour l’apprécier d’abord dans son ensemble, puis dans les détails. Je savais faire une vache paisiblement étendue, je gardais en moi chaque note, comme si j’étais un oiseau ou le reflet d’un marécage. J’étais au sommet de la voix, j’étais à la cime de la portée, la courbe du legato, le sous-entendu du tenuto.
Published February 25, 2019
Excerpted from Anna Felder, Sous l’œil du chat, Editions Le Soupirail 2018.
© Editions Le Soupirail 2018.
From Umzug durch die Katzentür
Written in Italian by Anna Felder
Translated into German by Maria Sprecher
Die Gesangstunden begannen um die Zeit, da die Katzen unruhig werden und die Verliebten sich allein fühlen, um die Zeit, da man die Schränke im Haus aufmacht, um Biskuits und Kleider hervorzukramen.
Die Mädchen kamen zur Lektion und hofften, diese Stunde werde besser verlaufen als die andern; man konnte es ihnen von der Stirne ablesen; sie lernten die ganze Woche hindurch, und dann, vor der Lehrerin, ließen sie sich ausschelten. Sie stolperten vor Aufregung, begingen aus lauter Eifer, es gut machen zu wollen, Fehler, lachten vor Nervosität, und die Lehrerin akzeptierte weder Fehler noch Nachlässigkeiten. Seit Winterbeginn hatte sie die Preise erhöht. Die Mädchen wollten singen, und die Lehrerin war da, um zu korrigieren. «Wenn man denkt, daß ich zu Hause wirklich geübt habe», protestierten sie zaghaft; doch die Lehrerin hörte nicht auf Entschuldigungen.
Im Erdgeschoß und im Mikroskopierzimmer stand man Ängste aus, wenn man die Entschuldigungen durch die Wände hörte. Manchmal drangen sie bis zur Mansarde vor, mit einem Band über dem Chignon, oder mit offe-nem Haar. Im Musikzimmer lernte man atmen. Bevor man singen durfte, mußte man Atemübungen machen; die Mädchen schielten nach der Armbanduhr der Lehrerin. Es war schwierig, besser zu werden.
Ich regte mich auf. Mit wem sollte ich sympathisieren, mit der Schülerin oder der Lehrerin? Mir gingen die abwegigsten Gedanken durch den Kopf; ich wanderte durch Wien und fand dort dieselbe Nervosität; ich streifte durch die Elendsviertel und fand dort dieselbe Angst; ich zog durch bekannte Konditoreien, und auch dort war man unzufrieden. Ich versetzte mich in die Lage der Gesangschülerin, ich fand sie hübsch und originell, sie hatte gar keinen Grund, wie auf Nadeln zu sitzen, und doch hoffte ich heimlich, die nächste Schülerin möchte noch hübscher und origineller sein.
Ich hoffte und hoffte doch nicht, denn das Ganze konnte auch schlecht enden. Ich wartete, lauschte auf den Gesang, er lag schwer auf mir wie hohes Gras, und unten war der Teich. Man durfte sich nicht wegbegeben, trotz der Unruhe, trotz der Unfälle auf den Landstraßen. Im übrigen konnte mir der Gesang einmal nützlich sein. Ich spähte durch das trübe Wasser des Teiches, um zu sehen, ob man hindurchgelangen konnte. Die Schülerin sang. Dann konnte es geschehen, daß ein Bruchstück in lateinischer Sprache so Weit heraufschwamm, daß man es in dem trüben Wasser des Teichs erkennen konnte, es sandte unzusammenhängende Zeichen zukünftiger Zeiten herauf: es stieg empor und verlor sich; Salvia splendens tauchte aus dem Grund herauf und verging im Grund in Nerium oleander; es war ein langsames Auf und Ab in dem opaken Schwarz des stillstehenden Wassers, mancher Name erschien dreimal hintereinander oder verschwand, kaum angedeutet.
Dann kam die nächste Schülerin. Breitbeinig; dem Boden verhaftet, mit gespreizten Zehen, stand sie da. Anstatt zu atmen, versuchte sie eine Minute lang, ihre Stimme in die richtige Tonlage zu bringen. Sie ging mit den Noten um, als wolle sie ein Hemd am Wäschedraht aufhängen, eine Klammer hier, eine Klammer dort, bis sie fühlte, daß es hielt. Die Lehrerin unterbrach sie, sie setzte sich ans Klavier und füllte die Tasten mit Klängen, man hätte meinen können, sie halte einen Wäschekorb in der Hand, um ihn bis zum Rand zu füllen. Es war alles da : Hemden und Servietten, nur brauchte es die Töne, um die Form einer Manschette, eines blauen Taschentuchs über das Notensystem zu spannen. Der Gesang legte sich ins Mittel; zwei, drei Klammern fielen herab. Man begann wieder von vorn, wobei man die Manschette hervorhob, sie mußte das Wichtigste am Hemd sein. Nichts durfte verlorengehen, keine Spitze, kein Triller. «Halt !» hörte ich die Lehrerin sagen. Sie stellte den Korb beiseite und ließ erst sich hören, dann die Schülerin, dann wieder sich selbst. Es waren maschnengehäkelte Spitzen aus Achtel- und Sechzehntelnoten. Doch die Schülerin versagte wieder. Auch ich mußte innehalten. Ich war blockiert. Ich wiederholte die Passage von Anfang an, mit Angst in der Kehle wegen dieser verfänglichen Note. Es war nichts zu machen. Ich kam bis zur gleichen Stelle und geriet dann ins Stocken. Es war eine Qual.
«Nicht einmal lesen kann man hier», brummte der Alte, und ich begann zu hassen. Ich haßte die Schülerinnen, welche den Atem nicht hielten. Ich war meiner Sache sicher. «Wenn sie nicht richtig atmen können», schimpfte ich, «dann sollen sie atmen lernen, bevor sie ihre Zeit vertrödeln.»
Ich haßte sie alle, ich haßte diese unmusikalischen, ehrgeizigen jungen Damen, welche Papa und Mama hinter sich hatten, die ihr mageres Talent förderten. Ich hätte wetten mögen, daß sie jeden Tag nach dem Mittagessen und Nachtessen, zu den unmöglichsten Stunden übten, ja, daß sie sich dabei von dem eigenen Getriller mitreißen ließen, bis ihnen in einem gewissen Augenblick die Stimme entglitt, daß es nur so eine Wonne war. Papa und Mama tranken ihren Kaffee, und alles war verpatzt, alles wurde hingeworfen. Bis sie zur Gesangstunde erschienen, nachdem sie die gefährlichsten Straßen überquert hatten, aber mit dem Drehörgelchen in der Brust. Man fragte sich, wo das enden sollte. Die Lehrerin, droben, schüttelte den Kopf. Sie ließ sich nicht einen Ton entgehen, sie rieb sich die Brillengläser, und dann ließ sie ihre Stimme erschallen. Es war kein Sich-zur-Schaustellen, kein Theater dabei. Es war eine Stimme, die man hätte auf die Wandtafel schreiben können. Klar, rein, eine Note auf jedem zweiten Feld. Sie sollten es lernen.
Mit den Begabten, denen aus der Sonderklasse, war es etwas anderes. In jedem Jahr waren es zwei, Examensschülerinnen vom Konservatorium, eine vor allem, die immer wieder eine andere Frisur trug. Sie sang, und mit einem Mal befand ich mich in einem andern Himmel. Ich fühlte mich wie auf einem Kissen, auf einer kleinen Matratze aus blauem Gummi. Ihre Stimme hielt mich in der Schwebe. Ich saß unbeweglich und schwang doch mit den Tönen auf und ab. Man zog mich empor, und ich wurde, fragt mich nicht wie, immer größer und leichter. Jetzt hatte ich sie in mir, die blaue Luft, sie sang mir im Leib, und ich war eine in eine schlaftrunkene Hängematte eingewickelte Schlange. Ich wurde dunkelrot und grün, von den Farben der untergehenden Sonne, und glitt in die römische Campagna. Ich war eine bukolische Szene mit Ochsen und Hirtenmädchen in der Ferne, inmitten von Ruinen, inmitten der Asche Phocions, immer umflossen von jenem Licht, das nie erlischt. Denn jetzt war ich ein Gemälde, ein signierter Poussin, den man mit halbgeschlossenen Augen betrachten mußte, um ihn in seiner Gesamtheit zu genießen, und dann in den Einzelheiten. Ich war eine ruhig daliegende Kuh. Jede Note hielt ich in mir fest, als ob ich ein Vogel wäre. Ich befand mich auf dem Gipfel der Stimme, ich war auf dem höchsten Punkt des Pentagramms, war der Bogen über dem Legato, der Inbegriff des Tenuto.
Published February 25, 2019
Excerpted from Anna Felder, Umzug durch die Katzentür, Benziger Verlag, Zurigo 1975
© Benziger Verlag 1975
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La disdetta di Anna Felder è uscito per la prima volta da Einaudi nel 1974, per iniziativa di Italo Calvino, ed è ora nel catalogo delle Edizioni Casagrande. Di Calvino si conserva una lettera, spedita alla scrittrice il 17 marzo 1973: “Mi pare che lei sia una scrittrice con una personalità molto netta. Il suo modo di raccontare attraverso oggetti, quasi nature morte; o comunque organizzazioni visive dello spazio, o ‘messe in scena’ di momenti della vita quotidiana è interessante e compiuto e richiama esperienze della poesia contemporanea”. Calvino lodava specialmente lo “humour sommesso e trattenuto e continuo” del libro e il suo “sapore linguistico”. L’io narrante del romanzo è un gatto che osserva con attenzione e ironia i piccoli tic quotidiani dei suoi coinquilini umani, i preparativi per il Natale, le ossessioni di un perbenismo ormai alla rovina.
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