La prima cancellazione si è verificata il giorno del mio quarantaquattresimo compleanno. Quella mattina mi ero svegliato più presto del solito, molto prima che suonasse la sveglia. Era una giornata autunnale, piovosa, dal cielo livido. Mi sono alzato dal letto a fatica per trascinarmi verso il bagno con la testa pesante e la mente ancora confusa. Arrivato davanti allo specchio, non ho visto il mio riflesso.

C’era l’immagine della porta, dell’accappatoio appeso al gancio sulle piastrelle di maiolica, ma io continuavo a essere invisibile. Terrorizzato e col cuore in gola, sono corso in camera e mi sono piazzato davanti alla specchiera. Anche lì niente riflesso, non esistevo più. Eppure al tatto me la sentivo la pelle, e se abbassavo lo sguardo distinguevo il mio corpo tutt’intero. Nello specchio, però, non mi vedevo più. Mi sono morso forte il labbro, facendomi male, e ho sfregato con vigore le piante dei piedi contro il pavimento per percepirne la freschezza. La grande psiche rifletteva soltanto le tende della vetrata da cui si diffondeva la luce grigiastra dell’alba. Sono tornato sotto la doccia, per sentire l’acqua calda scottarmi la pelle, e ho cominciato a insaponarmi energicamente, senza tralasciare un solo centimetro del mio corpo.

Ero vivo, non c’erano dubbi, quella massa compatta, palpabile e fremente ero proprio io. Non ero scomparso, dunque, non ero morto, e l’intenso dolore che avvertivo a livello cutaneo mi dimostrava che esistevo davvero. Sono uscito dalla doccia e ho passato una mano sullo specchio appannato. L’ombra di un profilo. Ho potuto distinguere il torace, poi le braccia, le mani e, a poco a poco, il viso umido, la pelle arrossata e gli occhi sgranati. La mia immagine era finalmente riapparsa. Tornato in camera, mi sono ispezionato con calma tutto il corpo per assicurarmi che non mancasse nulla.

La prima cancellazione si era appena conclusa, potevo vestirmi, uscire, e iniziare la giornata.

(…)

Quando l’ho chiamato, il Dottor B. mi ha risposto al primo squillo – non era troppo impegnato, evidentemente – e mi ha proposto di ricevermi in giornata, nel tardo pomeriggio. Il suo studio si trovava al primo piano di una palazzina scalcinata, in uno degli innumerevoli vicoli ciechi del quartiere Télemly. All’ingresso dell’edificio una targa di plastica tutta ammaccata indicava che il dottore Mohamed Ali B. era psichiatra, psicanalista e assistente di ruolo presso gli ospedali di Parigi. Il campanello non funzionava, perciò ho bussato alla vecchia porta di legno che, stranamente, si è aperta subito. Ho capito che l’ometto che mi stava davanti, calvo, vicino alla sessantina, dall’aria taciturna, era il Dottor B. in persona. Con voce flebile e un po’ rauca, mi ha chiesto di pazientare nella piccola anticamera che fungeva da sala d’attesa. Seduto su una sedia di plastica, ho sfogliato sovrappensiero una delle vecchie riviste strappate messe alla rinfusa su un tavolino. Un quarto d’ora dopo, il Dottor B. mi ha fatto entrare nel piccolo studio adiacente, per poi invitarmi a sedere su una vecchia poltrona di velluto grigio, alquanto sformata ma comoda. Lui ha preso posto sulla seggiola di legno di fronte a me e ha scribacchiato qualcosa sul taccuino, tirando su col naso rumorosamente. Dopo un paio di minuti, senza nemmeno guardarmi, mi ha chiesto di esporgli il problema. Gli ho riferito l’incidente dello specchio e ha cominciato a prendere appunti. Mi è parso di vedergli affiorare più volte sul viso un sorrisetto divertito, soprattutto quando ho specificato che l’incidente in questione era avvenuto il giorno del mio quarantaquattresimo compleanno.

Il Dottor B. ha posato delicatamente penna e taccuino sopra un tavolinetto rotondo, si è tolto con cura gli occhiali, mi ha guardato raschiandosi la gola e mi ha comunicato che ero affetto da sindrome da cancellazione.

Questo disturbo, di cui si sapeva molto poco, sembrava colpire per lo più individui algerini di sesso maschile nati dopo l’Indipendenza. Nella maggior parte dei casi, le persone affette da tale patologia manifestavano i primi sintomi soltanto intorno ai quarant’anni. Gli ho chiesto se se ne conoscevano le cause, ha sospirato e mi ha detto che c’erano diverse ipotesi al vaglio. Si sospettava infatti una trasmissione intergenerazionale, all’interno della stessa famiglia, di traumi dovuti alla guerra di liberazione nazionale, oppure si pensava a problematiche relative all’educazione, se non addirittura a cause neurologiche, legate all’alterazione di una determinata area del lobo temporale. Il Dottor B. si è soffermato sulle origini e gli effetti ancora poco noti della malattia, per poi concludere che l’unico rimedio era seguire una psicoterapia, che mi avrebbe consentito di individuare le cause reali di questa sparizione.

(…)

Nottate brevissime, interrotte da risvegli frequenti, ogni due ore circa, avevano preso il posto del sonno pesante e comatoso a cui ero abituato. Inoltre, facevo sempre lo stesso incubo: in una notte di luna piena ero accovacciato vicino a un lago cercando di contemplarvi la mia immagine riflessa. Non la vedevo, e la cosa mi preoccupava. La superficie, nera come l’inchiostro, iniziava allora a fremere e poi a ribollire; a poco a poco si alzava una spirale d’acqua, cresceva, s’ingrandiva. La terra tremava e io restavo lì pietrificato. Per quanto resistessi, venivo attirato dalla corrente. Cercavo di lottare affondando le mani nella terra bagnata. Non serviva a nulla. Scivolavo via, mi aggrappavo alle radici delle piante, ma si spezzavano. Continuavo a scivolare via, finché venivo risucchiato dal vortice che mi sollevava sempre più in alto. L’acqua mi penetrava nei polmoni, soffocavo, non riuscivo più a respirare. All’improvviso la spirale collassava. Sentivo l’ineluttabile caduta, poi arrivava l’acqua che si schiantava, violenta, con fragore assordante. A quel punto mi svegliavo ansimando, al limite dell’asfissia, tutto sudato.

Le luci della città lampeggiavano dietro la vetrata. Sfidando il freddo autunnale, uscivo sul terrazzo, a piedi nudi, per riempirmi i polmoni di aria fresca e umida. Gocce d’acqua mi scivolavano sul viso, sentivo il corpo percorso da brividi, e piano piano riprendevo i sensi. Allora mi dicevo che andava tutto bene, che prima o poi sarebbe finita. Un giorno il mio riflesso avrebbe smesso di scomparire, e io avrei finalmente ricominciato a vivere una vita normale.