From Il deserto dei Tartari

Written in Italian by Dino Buzzati

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Un lunghissimo corridoio illuminato da rare lanterne accompagnava tutto lo schieramento delle mura, da un limite all’altro del valico. Ogni tanto c’era una porta; magazzini, laboratori, corpi di guardia. Camminarono per circa centocinquanta metri fino all’ingresso della terza ridotta. Una sentinella armata stava sulla soglia. Morel chiese di parlare al tenente Grotta, che comandava la guardia.

Così, a dispetto del regolamento, poterono entrare. Giovanni si trovò in un piccolo andito di passaggio; su una parete, sotto un lume, c’era una tabella con i nomi dei soldati di servizio.

“Vieni, vieni di qui” disse Morel a Drogo “è meglio far presto.”

Drogo lo seguì per una stretta scala che sfociava nella libera luce, sugli spalti della ridotta. Alla sentinella che incrociava in quel tratto, il tenente Morel fece un cenno, come per dire che le formalità erano inutili.

Giovanni si trovò improvvisamente affacciato alla merlatura perimetrale: dinanzi a lui, inondata dalla luce del tramonto, si sprofondava la valle, si aprivano ai suoi occhi i segreti del settentrione.

Un vago pallore si era fatto sul volto di Drogo, impietrito, che guardava. La vicina sentinella si era fermata e un silenzio sterminato pareva essere sceso fra gli aloni del crepuscolo. Poi Drogo chiese, senza muovere gli sguardi:

“E dietro? dietro a quelle rocce com’è? Tutto così fino in fondo?”

“Non l’ho mai visto” rispose Morel. “Bisogna andare alla Ridotta Nuova, quella laggiù, in cima a quel cono. Di là si vede tutta la pianura davanti. Dicono…” e qui tacque.

“Dicono?… che cosa dicono?” chiese Drogo, e una insolita inquietudine tremava nella sua voce.

“Dicono che sia tutta sassi, una specie di deserto, sassi bianchi, dicono, come ci fosse la neve.”

“Tutto sassi? e basta?”

“Così dicono, e qualche acquitrino.”


”Ma in fondo? al nord, si vedrà bene qualcosa?”

“All’orizzonte di solito ci sono le nebbie” disse Morel che aveva perduto la sua cordiale esuberanza di prima. “Ci sono le nebbie del nord che non lasciano vedere.”

“Le nebbie!” esclamò Drogo incredulo. “Non resteranno mica in permanenza, qualche giorno l’orizzonte sarà pure sereno.”

“Quasi mai sereno, neppure d’inverno. Ma ci sono quelli che dicono di aver visto.”

“Dicono di aver visto? che cosa?”

“Si sono sognati, si sono. Vacci a credere ai soldati, tu. Uno dice una cosa, uno dice un’altra. Certi dicono di aver visto delle torri bianche, oppure dicono che c’è un vulcano che fuma ed è là che vengono fuori le nebbie. Anche Ortiz, il capitano, garantisce di aver visto, saranno ormai cinque anni. A sentir lui c’è una lunga macchia nera, dovrebbero essere foreste.”

Tacquero. Dove mai Drogo aveva già visto quel mondo? C’era forse vissuto in sogno o l’aveva costruito leggendo qualche antica fiaba? Gli pareva di riconoscerle, le basse rupi in rovina, la valle tortuosa senza piante né verde, quei precipizi a sghembo e infine quel triangolo di desolata pianura che le rocce davanti non riuscivano a nascondere. Echi profondissimi dell’animo suo si erano ridestati e lui non li sapeva capire.

Ora Drogo mirava il mondo del settentrione, la landa disabitata attraverso la quale gli uomini, si diceva, mai erano passati. Mai di là erano giunti nemici, mai si era combattuto, mai era successo niente.

*

Quasi due anni dopo Giovanni Drogo dormiva una notte nella sua camera della Fortezza. Ventidue mesi erano passati senza portare niente di nuovo e lui era rimasto fermo ad aspettare, come se la vita dovesse avere per lui una speciale indulgenza. Eppure ventidue mesi sono lunghi e possono succedere molte cose: c’è tempo perché si formino nuove famiglie, nascano bambini e incomincino anche a parlare, perché una grande casa sorga dove prima c’era soltanto prato, perché una bella donna invecchi e nessuno più la desideri, perché una malattia, anche delle più lunghe, si prepari (e intanto l’uomo continua a vivere spensierato), consumi lentamente il corpo, si ritiri per brevi parvenze di guarigione, riprenda più dal fondo, succhiando le ultime speranze, rimane ancora tempo perché il morto sia sepolto e dimenticato, perché il figlio sia di nuovo capace di ridere e alla sera conduca le ragazze nei viali, inconsapevole, lungo le cancellate del cimitero.

L’esistenza di Drogo invece si era come fermata. La stessa giornata, con le identiche cose, si era ripetuta centinaia di volte senza fare un passo innanzi. Il fiume del tempo passava sopra la Fortezza, screpolava le mura, trascinava in basso polvere e frammenti di pietra, limava gli, scalini e le catene, ma su Drogo passava invano; non era ancora riuscito ad agganciarlo nella sua fuga.

Anche quella notte sarebbe stata uguale a tutte le altre se Drogo non avesse fatto un sogno. Egli era tornato bambino e si trovava di notte al davanzale di una finestra.

Al di là di una profonda rientranza della casa, vedeva la facciata di un palazzo ricchissimo illuminato dalla luna. E l’attenzione di Drogo bambino era tutta attratta verso un’alta sottile finestra, coronata da un baldacchino di marmo. La luna, entrando attraverso i vetri, batteva su un tavolo dove c’erano un tappeto, un vaso e alcune statuette di avorio. E questi pochi oggetti visibili facevano immaginare che nel buio, dietro, si aprissero le intimità di un vasto salone, il primo di una interminabile serie, pieni di cose preziose, e il palazzo intero dormisse, di quel sonno assoluto e provocante che conoscono le dimore della gente ricca e felice. “Che gioia” pensò Drogo “poter vivere in quei saloni, girare per ore scoprendo sempre nuovi tesori.” Tra la finestra a cui era affacciato e il meraviglioso palazzo – un intervallo di una ventina di metri – avevano intanto cominciato a fluttuare fragili parvenze, simili a fate forse, che si trascinavano dietro strascichi di velo, rilucenti alla luna.

Nel sogno la presenza di simili creature, mai viste nel mondo reale, non stupiva Giovanni. Esse ondeggiavano nell’aria in lenti vortici, sfiorando insistentemente la sottile finestra.

Per la loro natura esse apparivano logiche pertinenze del palazzo, ma il fatto che non badassero affatto a Drogo, mai avvicinandosi alla sua casa, lo mortificava. Anche le fate dunque rifuggivano dai bambini comuni per badare soltanto alla gente fortunata che non le stava neppure a guardare ma dormiva indifferente sotto baldacchini di seta? “Pst…pst…” fece Drogo due o tre volte, timidamente, per attirare l’attenzione dei fantasmi, ben sapendo però in cuor suo che sarebbe stato inutile. Nessuno di quelli infatti parve sentire, nessuno si accostò sia pure di un metro al suo davanzale.

Ma ecco una di quelle magiche creature aggrapparsi al bordo della opposta finestra con una specie di braccio e battere il vetro discretamente come per chiamare qualcuno.

Non passarono molti istanti che una esile figura, oh quanto piccola in confronto della monumentale finestra, comparve dietro i vetri e Drogo riconobbe Angustina, pure lui bambino.

Angustina, di un impressionante pallore, portava un vestito di velluto con un collo di pizzo bianco e non pareva per nulla soddisfatto di quella silenziosa serenata.

Drogo pensò che il compagno, se non altro per cortesia, lo avrebbe invitato a giocare insieme coi fantasmi. Ma non fu così. Angustina non parve notare l’amico e neppure quando Giovanni lo chiamò “Angustina! Angustina!” rivolse gli sguardi a lui.

Con gesto stanco l’amico invece aprì la finestra e si chinò verso lo spirito appeso al davanzale come se fosse con lui in dimestichezza e volesse dirgli una cosa. Lo spirito fece un cenno e seguendo la direzione di quel gesto Drogo volse gli sguardi a una grande piazza, assolutamente deserta, che si stendeva dinanzi alle case. Sopra questa piazza, a una decina di metri dal suolo avanzava per l’aria un piccolo corteo di altri spiriti che trascinavano una portantina. Fatta, apparentemente della loro medesima essenza, la portantina traboccava di veli e pennacchi. Angustina, con la sua caratteristica espressione di distacco e di noia, la guardava avvicinarsi; era evidente che veniva per lui.

L’ingiustizia feriva il cuore di Drogo. Perché tutto ad Angustina e a lui niente? Pazienza un altro, ma proprio Angustina, sempre così superbo e arrogante. Drogo guardò le altre finestre per vedere se ci fosse qualcuno che potesse eventualmente parteggiare per lui ma non riuscì a scorgere nessuno.

Finalmente la portantina si fermò, dondolando proprio dinanzi alla finestra e tutti i fantasmi d’un balzo si appollaiarono attorno formando una palpitante corona: tutti erano protesi ad Angustina non più ossequiosi bensì con curiosità avida e quasi maligna. Abbandonata a se stessa, la portantina si sosteneva nell’aria come appesa a fili invisibili.

Di colpo Drogo si svuotò di ogni invidia poiché capì ciò che stava accadendo. Vedeva Angustina, ritto al davanzale della finestra, e i suoi occhi fissare la portantina. Sì, erano venuti da lui i messaggeri delle fate quella notte, ma per quale ambasciata! A un lungo viaggio dunque doveva servire la portantina, e non sarebbe ritornata prima dell’alba e neppure la notte successiva né la terza notte, né mai. I saloni del palazzo avrebbero aspettato invano il padroncino, due mani di donna avrebbero cautamente richiuso la finestra lasciata aperta dal fuggitivo e anche tutte le altre sarebbero state sprangate, a covare nel buio il pianto e la desolazione.

I fantasmi, già amabili, non erano dunque venuti a giocare coi raggi della luna, non erano usciti, innocenti creature, da giardini profumati, ma provenivano dall’abisso.

Gli altri bambini avrebbero pianto, avrebbero chiamato la mamma, invece Angustina non aveva paura e confabulava pacatamente con gli spiriti, come per stabilire certe modalità ch’era necessario chiarire. Stretti intorno alla finestra, simili a un panneggiamento di spuma, quelli si accavallavano l’uno sull’altro, premendo verso il bambino e lui faceva con la testa di sì come per dire: va bene, va bene, tutto perfettamente d’accordo. Alla fine lo spirito che si era aggrappato per primo al davanzale, forse il capo, fece un piccolo gesto imperioso. Angustina, sempre con la sua aria annoiata, scavalcò il davanzale (pareva già divenuto lieve come i fantasmi) e si sedette nella portantina, da signore, accavallando le gambe. Il grappolo di fantasmi si disciolse in un ondeggiamento di veli, la fatata carrozza mosse dolcemente per partire.

Si compose un corteo, le parvenze fecero una evoluzione semicircolare nella rientranza delle case, per sollevarsi quindi nel cielo, in direzione della luna. Nel descrivere il semicerchio anche la portantina passò a pochi metri dalla finestra di Drogo che agitando le braccia tentò di gridare “Angustina! Angustina!” supremo saluto. L’amico morto volse allora finalmente il capo verso Giovanni, fissandolo qualche istante, e a Drogo sembrò di leggervi una serietà assolutamente eccessiva per così piccolo bambino. Ma il volto di Angustina lentamente si apriva a un sorriso di complicità, come se Drogo e lui potessero capire molte cose sconosciute ai fantasmi; una estrema voglia di scherzare, l’ultima occasione per far vedere che lui Angustina non aveva bisogno della pietà di nessuno: un episodio qualsiasi, pareva dire, sarebbe stato stupido meravigliarsene. Traendolo via la portantina, Angustina staccò gli sguardi da Drogo e volse il capo dinanzi, in direzione del corteo, con una specie di curiosità divertita e diffidente. Sembrava che esperimentasse per la prima volta un giocattolo a cui non teneva affatto ma che per convenienza non aveva potuto rifiutare.

Così si allontanò nella notte, con nobiltà quasi inumana. Non diede uno sguardo al suo palazzo, non uno alla piazza sottostante, o alle altre case, o alla città in cui era vissuto. Il corteo andò serpeggiando lentamente nel cielo, sempre più in alto, divenne una confusa scia, poi un minimo ciuffetto di nebbia, poi nulla. La finestra era rimasta aperta, i raggi della luna ancora illuminavano il tavolo, il vaso, le statuette di avorio, che avevano continuato a dormire. Là dentro, in altra stanza disteso sul letto, al lume tremolante dei ceri, forse stava disteso un piccolo corpo umano privo di vita, il cui volto assomigliava ad Angustina; e doveva avere un vestito di velluto, un grande collo di pizzo, sulle bianche labbra raggelato un sorriso.

Published April 1, 2020
Excerpted from Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano 1945.
© 1945 Arnoldo Mondadori Editore

From The Tartar Steppe

Written in Italian by Dino Buzzati


Translated into English by Stuart C. Hood

An immensely long corridor, lit by infrequent lamps, ran all the length of the walls from one side of the pass to the other. Every so often there was a door–storerooms, workshops, guard rooms. They walked for about a hundred and fifty yards to the entrance of the third redoubt. An armed sentry stood before the door. Morel asked to speak to Lieutenant Grotta, who was commander of the guard.

Thus they were able to enter in defiance of the regulations. Giovanni found himself in the entrance to a narrow passageway; on one wall there was a board with the names of the soldiers on duty.

“Come on, come this way,” said Morel to Drogo, “we had better hurry.”

Drogo followed him up a narrow stair which came out into the open air on the ramparts of the redoubt. To the sentry who paced to and fro Lieutenant Morel made a sign as if to say there was no need for formalities.

Giovanni suddenly found himself looking on to the outer battlements; in front of him the valley fell away, flooded with moonlight, and the secrets of the north lay open before his eyes.

A kind of pallor came over Drago’s face as he looked; he was as rigid as stone. The nearby sentry had halted and an unbroken silence seemed to have descended through the diffused half-light. Then without shifting his gaze Drogo asked:

“And beyond-beyond that rock what is it like? Does it go on and on like this?”

“I have never seen it,” replied Morel. “You have to go to the New Redoubt-that one there on the peak. From there you see all the plain beyond. They say . . .” And here he fell silent.

“What do they say?” asked Drogo, and his voice trembled with unusual anxiety.

“They say it is all covered with stones–a sort of desert, with white stones, they say–like snow.”

“All stones–and nothing else?”

“That’s what they say–and an occasional patch of marsh.”

“But right over – in the north they must see something.”
“Usually there are mists on the horizon,” said Morel, who had lost his previous warm enthusiasm. “There are mists which keep you from seeing.”

“Mists,” said Drogo incredulously. “The can’t always be there–the horizon must clear now and again.”

“Hardly ever clear, not even in winter. But some people say they have seen things.”

“Seen? What sort of things?”

“They mean they’ve dreamt things. You go and hear what the soldiers have to say. One says one thing, one another. Some say they have seen white towers, or else they say there is a smoking volcano and that is where the mists come from. Even Ortiz, Captain Ortiz, maintains he saw something five years ago now. According to him there is a long black patch–forests probably.”

They were both silent. Where, Drago asked himself, had he seen this world before? Had he lived there in his dreams or created it as he read some ancient tale. He seemed to make some things out–the low crumbling rocks, the winding valley in which there were neither trees nor verdure, those precipitous slopes and finally that triangle of desolate plain which the rocks before him could not conceal. Responses had been awakened in the very depth of his being and he could not grasp them.

At this moment Drago was looking at the northern world–the uninhabited land across which, or so they said, no man had ever come. No enemy had ever come out of it; there had been no battles; nothing had ever happened.

*

Almost two years later Giovanni Drago was sleeping one night in his room in the Fort. Twenty-two months had passed without bringing anything fresh and he had stayed there waiting as if life could not but be specially lenient with him. Yet twenty-two months are a long time and a lot of things can happen in them–there is time for new families to be formed, for babies to be born and even begin to talk, for a great house to rise where once there was only a field, for a beautiful woman to grow old and no one desire her any more, for an illness–for a long illness–to ripen (yet men live on heedlessly), to consume the body slowly, to recede for short periods as if cured, to take hold again more deeply and drain away the last hopes; there is time for a man to die and be buried, for his son to be able to laugh again and in the evenings take the girls down the avenues and past the cemetery gates without a thought.

But it seemed as if Drago’s existence had come to a halt. The same day, the same things, had repeated themselves hundreds of times without taking a step forward. The river of time flowed over the Fort, crumbled the walls, swept down dust and fragments of stone, wore away the stairs and the chains, but over Drago it passed in vain-it had not yet succeeded in catching him, bearing him with it as it flowed.

And this night, too, would have been like all the others if Drago had not had a dream. He was a child again; it was night and he was standing at a window.

To one side the house fell away and opposite, across the space he saw in the moonlight the facade of a sumptuous palace. And the attention of the little boy who was Drago was all intent on a high narrow window crowned by a coping of marble. The moon, shining through the glass, fell on a table on which there was a runner, a vase and a few ivory statuettes. And the few things he could see made him imagine that in the dark, behind them, there opened out the intimate secrets of a great salon, the first of an unending series, full of precious things, and that the whole palace slept that profound intriguing sleep of buildings whose owners are both rich and happy: How wonderful; thought Drogo, to be able to live in these salons, to wander through them for hours discovering ever new treasures.

Meanwhile between the window where he stood and the wonderful palace—there was perhaps twenty yards between them: frail apparitions had begun to float (some sort of fairy creature perhaps) trailing behind them trains of velvet which gleamed in the moon. In his dream the presence of such beings, which he had never seen in the real world, did not surprise Giovanni. They floated through the air, whirling gently, and returned again and again to brush past the narrow window.

By their nature they seemed logically to belong to the palace, but the fact that they paid not the slightest attention to Drogo, never once approached his house, mortified him. So the fairies, too, kept away from common children and had time only for people blessed by fortune, who did not even stand watching but slept indifferently under silken baldachins.

“Hist,” said Drogo two or three times timidly to attract the attention of the apparitions, although he knew quite well in his heart that it would be useless. And indeed not one of them seemed to hear, none of them drew even a few feet nearer to his window.

But suddenly one of these magic beings caught at the sill of the window opposite with what seemed to be its arm and knocked gently on the glass as if calling someone.

Only a few minutes had passed when a slight figure—how small it was in comparison with the immense window—appeared behind the panes and Drogo recognised Angustina, who was a child too.

Angustina, who was strikingly pale, wore a little velvet dress with a collar of white lace and seemed far from pleased with the silent serenade.

Drogo thought that, if only out of courtesy, his comrade would have invited him to play with the phantoms. But no. Angustina seemed not to notice his friend and did not even look round when Drogo called him: “Angustina! Angustina!”

Instead, with a tired gesture, his friend opened the window and leant out to the spirit which clung to the sill as if they knew each other and he had something to tell it. The spirit made a sign and, following the direction in which it pointed, Drogo turned his gaze to a great square which stretched out in front of the houses, completely deserted. Across this square a little procession of spirits advanced, some thirty feet above the ground, bearing a litter.

Formed, apparently, from the same substance as themselves, the litter overflowed with veils and plumes. With his usual expression of detachment and boredom Angustina watched it approach; evidently it came for him.

The injustice of it struck Drogo to the heart. Why did Angustina get everything and he nothing? With someone else it would not have mattered-but with Angustina who was always so proud and arrogant! Drogo looked at the other windows to see whether there were someone who might perhaps intervene for him-but he could see no one.

At last the litter stopped, swaying directly in front of the window and all the phantoms clustered around it suddenly in a wavering circle. All were turned towards Angustina—no longer obsequiously but with avid and almost malignant curiosity. Left abandoned, the litter remained in mid-air as if suspended from invisible threads.

Suddenly Drago felt all envy drain from him for he knew what was happening. He saw Angustina standing upright at the window and his eyes fix themselves on the litter. Yes, it was for him they had come tonight, the fairy messengers, but on what an errand! So the litter had to serve for a long journey and would not come back before the dawn, nor the next night, nor the next night again, nor ever. The salons of the palace would await their master in vain, a woman’s hands would cautiously close the window which the fugitive had left open and all the others too would be bolted to brood in the dark over the lamenting and desolation.

So the phantoms, which had seemed so friendly, had not come to play with the moonbeams, they had not come like innocent creatures from scented gardens, but derived from the abyss.

Other children would have cried, would have called on their mothers, but Angustina was not afraid and talked calmly with the spirits as if to clear up some points of ceremonial. Clustered round the window like a drift of foam, they climbed on top of each other, pressing forward towards the child and nodding to him as if to say: “Yes, yes, we quite agree.” At last the spirit which had been the first to cling to the sill—perhaps their leader-made a slight imperious gesture. Still with his air of boredom Angustina climbed over the window sill—he seemed already to have become as light as the phantoms—and sat in the litter like a great gentleman, and crossed his legs. The cluster of phantoms dissolved in a fluttering of veils; the enchanted litter moved gently off.

A procession formed–the apparitions carried out a semicircular evolution between the wings of the houses before rising into the sky towards the moon. As they wheeled in the semicircle the litter, too, passed close to Drago’s window; waving his arm he tried to shout his last greeting: “Angustina, Angustina.”

Then at last his friend turned his head towards Giovanni and looked at him for a moment or two-and to Drogo it seemed as if he could read in his glance an excessive air of seriousness for such a small child. But slowly Angustina’s face unfolded in a smile of complicity as if he and Drogo could understand a great deal the phantoms did not know-a last desire to make a joke, the final opportunity to show that he, Angustina, did not need anyone’s pity. This was an ordinary occurrence, he seemed to say, where was nothing to be surprised at.

As the litter bore him off, Angustina looked away from Drogo and turned his head to the front, in the direction of the procession, with a sort of curiosity which was at once amused and distrustful. It was as if be were experimenting for the first time with a toy which did not interest him in the slightest but which for appearance sake he could not have refused.

Thus he went off into the night with almost inhuman nobility. He gave not one glance at his palace, nor at the square before it nor at the other houses nor at the city where he had lived. The procession wound slowly through the sky, rising higher and higher; then it became a confused streak, then a wisp of mist, then nothing.

The window had remained open, the rays of the moon still illumined the table, the vase, the ivory statuettes, which had continued to sleep. Inside, in another room, on a bed by the trembling light of the tapers, lay perhaps a tiny lifeless body whose face was like Angustina’s; and it would be wearing a little velvet dress, a big lace collar and a smile frozen on the white lips.

Published April 1, 2020
Excerpted from Dino Buzzati, The Tartar Steppe, Farrar, Straus and Young, New York 1952.
© 1952 Farrar, Straus and Young

From Le désert des Tartars

Written in Italian by Dino Buzzati


Translated into French by Michel Arnaud

Un très long couloir, éclairé par de rares lanternes, parcourait les
remparts sur toute leur longueur, d’un bord du col à l’autre. De temps en temps, il y avait une porte : celle d’un magasin, d’un atelier, d’un corps de garde. Ils marchèrent pendant cent cinquante mètres environ, jusqu’à l’entrée de la troisième redoute. Une sentinelle en armes se tenait sur le seuil. Morel demanda à parler au lieutenant Grotta, qui était chef de poste.

Ainsi, malgré le règlement, ils purent entrer. Giovanni se trouva dans un petit passage ; sur l’un des murs, sous une lanterne, il y avait un tableau où étaient inscrits les noms des soldats de garde.

— Viens, viens par ici, dit Morel à Drogo, il vaut mieux faire vite.

Drogo monta derrière lui un étroit escalier qui aboutissait à l’air libre, sur les glacis de la redoute. Le lieutenant Morel fit un signe à la sentinelle qui veillait là, comme pour lui dire que les formalités étaient inutiles.

Giovanni se trouva brusquement penché au-dessus d’un merlon du mur d’enceinte : devant lui, inondée par la lumière du couchant, la vallée s’enfonçait, devant lui, les secrets du septentrion se dévoilaient.

Une vague pâleur avait envahi le visage de Drogo, qui regardait, pétrifié. La sentinelle voisine s’était arrêtée et un silence infini semblait être descendu avec les halos du crépuscule. Puis, sans détourner le regard, Drogo demanda :

— Et derrière ? derrière ces roches, comment est-ce ? C’est tout comme ça, jusqu’au bout ?

— Je n’ai jamais vu comment c’était, répondit Morel. Il faut aller à la nouvelle redoute, celle qui est là-bas, au sommet de ce cône. De là, on voit toute la plaine. On dit… Et, ici, il s’interrompit.

— On dit ?… Qu’est-ce qu’on dit ? demanda Drogo.
 Et une inquiétude inhabituelle faisait trembler sa voix.

— On dit que toute cette plaine n’est que cailloux, une sorte de désert,  des cailloux tout blancs, paraît-il, comme s’il y avait de la neige.

— Rien que des cailloux ? Et c’est tout ?

— C’est ce qu’on dit : des cailloux, et quelques marécages.

— Mais au fond, au Nord, on doit tout de même bien voir quelque  chose ?

— En général, à l’horizon, il y a de la brume, dit Morel, qui avait perdu  sa cordiale exubérance de tout à l’heure. Il y a les brumes du Nord qui empêchent de rien voir.

— Les brumes ! s’exclama Drogo incrédule. Elles ne doivent pas rester là en permanence, l’horizon doit parfois être clair.

— Il n’est presque jamais clair, même en hiver. Mais il y en a qui prétendent avoir vu…

— Qui prétendent avoir vu ? Quoi donc ?

— Ils ont rêvé, c’est sûr. Allez donc croire les soldats ! Celui-ci dit une chose, celui-là une autre. Certains disent avoir vu des tours blanches, ou bien ils disent qu’il y a un volcan fumant et que c’est de là que viennent les brumes. Même Ortiz, le capitaine, prétend avoir vu quelque chose, il y a bien de cela cinq ans. A l’entendre, il y a une longue tache noire, apparemment des forêts.

Ils se turent. Où donc Drogo avait-il déjà vu ce monde ? Y avait-il vécu en songe ou l’avait-il construit en lisant quelque antique légende ? Il lui semblait le reconnaître, reconnaître ce chaos de roches basses, cette vallée tortueuse sans aucune végétation, ces précipices abrupts et enfin ce triangle désolé de plaine que les roches qui étaient devant ne parvenaient pas à masquer.  Dans le tréfonds de son âme, des échos s’étaient éveillés, qui demeuraient incompréhensibles pour lui.

Maintenant, Drogo contemplait le monde du septentrion, la lande inhabitée à travers laquelle, disait-on, les hommes n’étaient jamais passés. Jamais, de par là, n’était venu l’ennemi, jamais on n’y avait combattu, jamais rien n’y était arrivé.

*

Une nuit, presque deux ans plus tard, Giovanni Drogo dormait dans sa chambre du fort. Vingt-deux mois avaient passé sans rien apporter de neuf et il était resté ferme dans son attente, comme si la vie eût dû avoir pour lui une indulgence particulière. Et pourtant, c’est long vingt-deux mois, et bien des choses peuvent arriver : vingt-deux mois suffisent pour fonder de nouvelles familles, pour que naissent des enfants et qu’ils commencent même à parler, pour que s’élève une grande maison là où il n’y avait que de l’herbe, pour qu’une jolie femme vieillisse et ne soit plus désirée par personne, pour qu’une maladie, même l’une des plus longues, se prépare (et, pendant ce temps, l’homme continue de vivre, sans soucis), consume lentement le corps, se retire, laissant croire pendant un temps bref à la guérison, reprenne plus profondément, rognant les derniers espoirs, et il reste encore du temps pour que le mort soit enseveli et oublié, pour que son fils soit de nouveau capable de rire et, le soir, se promène par les avenues avec des jeunes filles ingénues, le long des grilles du cimetière.

L’existence de Drogo, au contraire, s’était comme arrêtée. La même journée, avec ses événements identiques, s’était répétée des centaines de fois sans faire un pas en avant. Le fleuve du temps passait sur le fort, lézardait les murs, charriait de la poussière et des fragments de pierre, limait les marches et les chaînes, mais sur Drogo il passait en vain ; il n’avait pas encore réussi à l’entraîner dans sa fuite.

Cette nuit aussi eût été semblable à toutes les autres si Drogo n’avait pas fait un rêve. Il était redevenu enfant et se trouvait, en pleine nuit, devant une fenêtre.

Par delà un profond renfoncement de la maison, il voyait la façade d’un somptueux palais illuminé par la lune. Et l’attention de Drogo enfant était attirée tout entière vers une étroite fenêtre haut placée, surmontée par un baldaquin de marbre. La lune, pénétrant par les vitres, allait frapper une table sur laquelle il y avait un tapis, un vase et des statuettes d’ivoire. Et ces quelques objets que l’on pouvait voir donnaient à imaginer que, derrière, dans l’obscurité, s’ouvrait l’intimité d’un vaste salon, le premier d’une interminable série, tous pleins de choses précieuses, et que le palais tout entier dormait, de ce sommeil absolu et provocant que connaissent les demeures des gens riches et heureux. Quelle joie – pensa Drogo – que de pouvoir vivre dans ces salons, de pouvoir s’y promener pendant des heures, découvrant toujours de nouveaux trésors.

Cependant, entre la fenêtre à laquelle il se penchait et le merveilleux palais – un intervalle d’une vingtaine de mètres – s’étaient mises à flotter des formes fragiles, pareilles peut-être à des fées, qui traînaient derrière elles de longs voiles, que la lune faisait chatoyer.

Dans le sommeil, la présence de semblables créatures, telles qu’il n’en avait jamais vu dans le monde réel, n’étonnait pas Giovanni. Elles ondulaient dans l’air en de lents tourbillons, effleurant avec insistance la jolie fenêtre.

A cause de leur nature même, elles semblaient appartenir logiquement au palais, mais le fait qu’elles ne prêtassent aucune attention à Drogo, ne s’approchant jamais de sa maison, mortifiait celui-ci. Ainsi même les fées fuyaient les enfants ordinaires pour s’occuper seulement des gens fortunés qui, eux, ne les regardaient même pas, mais dormaient, indifférents, sous des baldaquins de soie ?

« Psst… psst…», fit timidement Drogo deux ou trois fois, pour attirer l’attention des fantômes, tout en sachant bien néanmoins, au fond de son cœur, que ce serait inutile. Aucun d’eux, en effet, ne parut entendre, aucun d’eux ne s’approcha, même d’un mètre, de sa fenêtre.

Mais voici qu’une de ces créatures magiques s’accroche au rebord de la fenêtre d’en face, avec une sorte de bras, et frappe discrètement au carreau, comme pour appeler quelqu’un.

Il ne se passa que quelques instants avant qu’une frêle silhouette, oh ! combien petite comparée à la monumentale fenêtre, apparût derrière les vitres, et Drogo reconnut Angustina, lui aussi enfant.

Angustina, d’une pâleur impressionnante, portait un costume de velours, au col de dentelle blanche, et il n’avait pas du tout l’air content de cette sérénade silencieuse.

Drogo pensa que son camarade allait l’inviter, ne fût-ce que par politesse, à jouer avec les fantômes. Mais il n’en fut pas ainsi. Angustina ne sembla pas remarquer son ami et, lorsque Giovanni appela « Angustina ! Angustina ! », il ne tourna même pas les yeux vers lui.

Au lieu de cela, Angustina, d’un geste las, ouvrit la fenêtre et se pencha vers l’esprit accroché au rebord de la fenêtre, comme s’il était très intime avec lui et comme s’il voulait lui dire quelque chose. L’esprit fit un signe et, suivant la direction de ce geste, Drogo tourna les yeux vers une grande place, absolument déserte, qui s’étendait devant les maisons. Sur cette place, à une dizaine de mètres du sol, avançait dans l’air un mince cortège d’autres esprits qui traînaient un petit palanquin.

Apparemment de la même essence qu’eux, le petit palanquin était débordant de voiles et de panaches. Angustina, avec sa caractéristique expression d’indifférence et d’ennui, le regardait s’avancer ; il était évident que le petit palanquin lui était destiné.

L’injustice meurtrissait le cœur de Drogo. Pourquoi tout pour Angustina et rien pour lui ? Pour un autre encore, oui, mais justement pour Angustina, toujours si fier et arrogant ! Drogo regarda les autres fenêtres pour voir s’il y avait quelqu’un qui pût éventuellement prendre son parti, mais il ne parvint à découvrir personne.

Finalement, le petit palanquin s’arrêta, se balançant juste devant la fenêtre, et, d’un bond, tous les fantômes se juchèrent autour de lui, formant une palpitante couronne ; ils étaient tous tournés vers Angustina, non plus obséquieux, mais avec une curiosité avide et presque méchante. Abandonné à lui-même, le petit palanquin demeurait en l’air, comme accroché à d’invisibles fils.

D’un coup, toute jalousie abandonna Drogo, car il comprit ce qui était en train de se passer. Il voyait Angustina à la fenêtre, tout droit, les yeux fixés sur le petit palanquin. Oui, les messagers des fées étaient venus à lui, cette nuit-là, mais pour quelle ambassade ! C’était donc à un long voyage que devait servir le petit palanquin, et il ne serait de retour ni avant l’aube, ni la nuit suivante, ni celle d’après, ni jamais. Les salons du palais attendraient en vain leur petit maître, deux mains de femmes refermeraient avec précaution la fenêtre laissée ouverte par le fugitif et toutes les autres fenêtres aussi seraient closes pour abriter dans l’ombre les pleurs et la désolation.

Les fantômes, naguère aimables, n’étaient donc pas venus jouer avec les rayons de lune, ils n’étaient pas sortis, innocentes créatures, de jardins parfumés, mais ils venaient de l’abîme.

Les autres enfants eussent pleuré, ils eussent appelé leur mère, mais Angustina, lui, n’avait pas peur et conversait placidement avec les esprits, comme pour établir certaines modalités qu’il était nécessaire de préciser. Serrés autour de la fenêtre, semblables à une guirlande d’écume, ils se chevauchaient l’un l’autre, se poussant vers l’enfant, et celui-ci faisait oui de la tête, comme pour dire : bien, bien, tout est parfaitement d’accord. A la fin, l’esprit qui, le premier, avait agrippé l’appui de la fenêtre, peut-être était-ce le chef, fit un petit geste impérieux. Angustina, toujours de son air ennuyé, enjamba l’appui de la fenêtre (il semblait déjà devenu aussi léger que les fantômes) et s’assit dans le petit palanquin, croisant les jambes en grand seigneur. La grappe de fantômes se défit dans un ondoiement de voiles, le véhicule enchanté s’ébranla doucement.

Un cortège se forma, les fantômes firent une évolution semi-circulaire dans le renfoncement des maisons, pour s’élever ensuite dans le ciel, dans la direction de la lune. Pour décrire le demi-cercle, le petit palanquin passa, lui aussi, à quelques mètres de la fenêtre de Drogo, qui, agitant les bras, tenta de crier en un suprême adieu : « Angustina ! Angustina ! »

Son ami mort tourna finalement alors la tête vers Giovanni, le regardant fixement pendant quelques instants, et il sembla à Drogo qu’il lisait dans ses yeux une gravité vraiment excessive chez un enfant aussi petit. Mais le visage d’Angustina s’ouvrait lentement à un sourire de complicité, comme si Drogo et lui pouvaient comprendre bien des choses inconnues aux fantômes ; une ultime envie de plaisanter, la dernière occasion de montrer que lui, Angustina, n’avait besoin de la pitié de personne : « C’est un épisode quelconque, avait-il l’air de dire, il serait vraiment stupide de s’en étonner. »

Emporté par le palanquin, Angustina détacha ses yeux de Drogo et tourna la tête, regardant devant lui, dans la direction du cortège, avec une espèce de curiosité amusée et méfiante. Il avait l’air d’essayer pour la première fois un nouveau jouet auquel il ne tenait pas du tout, mais que, par politesse, il n’avait pu refuser.

Il s’éloigna de la sorte dans la nuit, avec une noblesse presque inhumaine. Il n’eut pas un seul regard pour son palais, ni pour la place qui était en dessous de lui, ni pour les autres maisons, ni pour la ville où il avait vécu. Le cortège avança en serpentant lentement dans le ciel, montant toujours plus haut, il devint une traînée confuse, puis un minuscule panache de brume, puis il disparut.

La fenêtre était restée ouverte, les rayons de la lune illuminaient encore la table, le vase, les statuettes d’ivoire qui avaient continué de dormir. A l’intérieur de cette maison, étendu sur le lit d’une autre chambre, à la lueur tremblotante des cierges, gisait peut-être un petit corps humain privé de vie, dont le visage ressemblait à celui d’Angustina ; et il devait porter un costume de velours au grand col de dentelle, avoir sur ses lèvres pâles et figées un sourire.

Published April 1, 2020
Excerpted from Dino Buzzati, Le désert des Tartars, Éditions Robert Laffont, Paris 1949.
© Arnoldo Mondadori Editore, 1945; Traduction française : Edit. Robert Laffont, S. A., 1949

From O deserto dos Tártaros

Written in Italian by Dino Buzzati


Translated into Portuguese by Aurora Fornoni Bernardini and Homero Freitas de Andrade

Um longo corredor, iluminado por raras lanternas, acompanhava todo o alinhamento das muralhas, de um limite ao outro do desfiladeiro. De vez em quando havia uma porta; depósitos, laboratórios, corpos de guarda. Caminharam por cerca de 150 metros até a entrada do terceiro reduto. Uma sentinela armada estava à soleira. Morel pediu para falar com o tenente Grotta, que comandava a guarda.

Assim, a despeito do regulamento, puderam entrar. Giovanni achou-se num pequeno corredor de passagem; numa parede, sob uma luz, havia uma tabela com os nomes dos soldados de serviço.

— Venha, venha cá — disse Morel a Drogo. — É melhor irmos depressa.

Drogo seguiu-o por uma estreita escada que desembocava ao ar livre, nos bastiões do reduto. O tenente Morel fez um sinal à sentinela com quem cruzaram, como para dizer que as formalidades eram inúteis.

Giovanni encontrou-se de repente diante das ameias perimetrais: à sua frente, inundado pela luz do poente, aprofundava-se o vale, revelavam-se aos seus olhos os segredos do setentrião.
Uma leve palidez tomou conta do rosto de Drogo, petrificado, que mirava. A sentinela vizinha detivera-se, e um silêncio desmedido parecia ter descido por entre os halos do crepúsculo. Depois Drogo perguntou, sem mover os olhos:

— E atrás? Atrás daquelas rochas, como é? Tudo assim, até o fim?

— Nunca vi — respondeu Morel. — É preciso ir até o Reduto Novo, aquele lá longe, em cima daquele cone. Dali enxerga-se toda a planície dianteira. Dizem… — e então calou-se.

— Dizem… O que dizem? — perguntou Drogo, e uma insólita inquietação tremia em sua voz.

— Dizem que é toda de pedras, uma espécie de deserto, seixos brancos, dizem, como se fosse neve.

— Só pedras? Mais nada?

— É o que dizem, e alguns charcos.

— Mas no fundo, ao norte, será que não se vê alguma coisa?

— No horizonte quase sempre há névoas — disse Morel, sem a cordial exuberância de antes. — Há as névoas do norte que não permitem ver.

— As névoas! — exclamou Drogo, incrédulo. — É impossível que fiquem ali para sempre, algum dia o horizonte deverá estar limpo.

— Raramente está limpo, nem mesmo no inverno. Mas há os que dizem ter visto.

— Dizem ter visto o quê?

— Andaram sonhando, isso sim. Veja lá se dá para acreditar nos soldados. Um diz uma coisa, outro diz outra. Alguns dizem ter visto torres brancas, ou então dizem que há um vulcão fumegante e que de lá saem as névoas. Mesmo Ortiz, o capitão, garante ter visto, vai fazer uns cinco anos agora. Pelo que disse, há uma longa mancha escura, deveriam ser florestas.

Calaram-se. Onde, afinal, Drogo já vira aquele mundo? Talvez o tivesse vivido em sonho, ou quem sabe o construíra lendo uma antiga fábula? Parecia-lhe reconhecer os baixos despenhadeiros em ruínas, o vale tortuoso sem plantas nem verdes, aqueles precipícios a pique e, finalmente, aquele triângulo de desolada planície que as rochas à frente não conseguiam esconder. Profundos ecos de sua alma haviam despertado, e ele não sabia decifrá-los.

Agora Drogo descortinava o mundo do setentrião, a terra desabitada através da qual os homens, diziam, nunca haviam passado. De lá nunca haviam chegado inimigos, nunca houvera combates, nunca acontecera nada.

*

Quase dois anos depois, Giovanni Drogo dormia uma noite em seu quarto, no forte. Vinte e dois meses haviam passado sem trazer nada de novo, e ele permanecera firme, esperando, como se a vida devesse ter para com ele uma particular indulgência. Entretanto, 22 meses são longos, e podem acontecer muitas coisas: dá tempo para que se formem novas famílias, crianças nasçam e comecem até a falar, para que uma grande casa surja onde antes havia apenas um prado, para que uma mulher bonita envelheça e ninguém mais a deseje, para que uma doença, mesmo das mais demoradas, tome alento (enquanto isso o homem continua a viver despreocupado), consuma lentamente o corpo, desapareça para deixar lugar a breves aparências de cura, recomece mais fundo, sugando as últimas esperanças, sobre ainda tempo para que o morto seja sepultado e esquecido, para que o filho seja de novo capaz de rir e, à noite, leve moças ingênuas às alamedas, ao longo das grades do cemitério.

A existência de Drogo, ao contrário, tinha como que parado. Dias iguais, com as mesmas coisas de sempre, repetiam-se centenas de vezes sem dar um passo adiante. O rio do tempo passava sobre o forte, rachava os muros, arrastava para baixo poeira e fragmentos de pedra, limava os degraus e as correntes, mas sobre Drogo passava à toa; não conseguira enganchá-lo ainda em sua fuga.

Aquela noite também teria sido igual a todas as demais se Drogo não tivesse um sonho. Ele voltara a ser criança e encontrava-se, de noite, no parapeito de uma janela.

Além de uma profunda reentrância da casa, via a fachada de um palácio opulento, iluminado pela lua. E a atenção de Drogo menino era totalmente atraída por uma janela alta e estreita, coroada por um baldaquim de mármore. O luar, penetrando pelas vidraças, batia em uma mesa onde havia uma toalha, um vaso e algumas estatuetas de marfim. E esses poucos objetos visíveis levavam a imaginar que na escuridão, atrás, se abria a intimidade de um vasto salão, o primeiro de uma série interminável, cheio de objetos valiosos, e que o palácio inteiro estava adormecido, mergulhado naquele sono absoluto e provocante que as moradias de gente rica e feliz conhecem. “Que delícia”, pensou Drogo, “poder viver nesses salões, perambular durante horas, descobrindo sempre novos tesouros!”

Entre a janela da qual se aproximara e o maravilhoso palácio — um espaço de uns vinte metros — começavam a flutuar frágeis aparições, semelhantes a fadas talvez, que arrastavam atrás de si caudas de véu, reluzentes ao luar.

No sonho, a presença de semelhantes criaturas, nunca vistas no mundo real, não espantava Giovanni. Elas ondeavam no ar em lentos vórtices, roçando, insistentes, a estreita janela.

Por sua natureza, pareciam lógicos pertences do palácio, mas o fato de não repararem absolutamente em Drogo, e de não se aproximarem de sua casa, o mortificava. Será que nem as fadas, então, gostavam das crianças comuns, cuidavam apenas da gente rica, que nem se dava ao trabalho de reparar nelas e dormia, indiferente, sob os baldaquins de seda?

“Psiu… psiu…”, fez Drogo duas ou três vezes, timidamente, para atrair a atenção dos fantasmas, sabendo de antemão, porém, no íntimo, que seria inútil. Nenhum deles na verdade pareceu ouvir, nenhum se aproximou sequer um metro do seu parapeito.

Mas eis que uma daquelas mágicas criaturas agarra-se à borda da janela oposta com uma espécie de braço e bate na vidraça, discretamente, como para chamar alguém.

Não precisou muito tempo para que uma figura franzina, ah, como era pequena em comparação com a monumental janela, aparecesse atrás das vidraças, e Drogo reconheceu Angustina, ele também criança.

Angustina, com uma palidez impressionante, vestia uma roupa de veludo com gola de renda branca, e não parecia absolutamente satisfeito com aquela silenciosa serenata.

Drogo achou que o companheiro, nem que fosse só por cortesia, o convidaria para brincar com os fantasmas. Mas não foi o que aconteceu. Angustina não pareceu reparar no amigo, e nem mesmo quando Giovanni o chamou: “Angustina! Angustina!”, volveu os olhos para ele.

Com um gesto cansado, o amigo abriu a janela e inclinou-se em direção ao espírito pendurado no parapeito, como se tivesse intimidade com ele e quisesse dizer-lhe algo. O espírito fez um sinal, e, acompanhando com o olhar a direção daquele gesto, Drogo deu com uma grande praça, absolutamente deserta, que se estendia diante das casas. Acima da praça, a uns dez metros do solo, avançava pelo ar um pequeno cortejo de outros espíritos arrastando uma liteira.

Feita aparentemente da mesma substância que eles, a liteira transbordava de véus e penachos. Angustina, com sua característica expressão de indiferença e enfado, olhava para ela; era evidente que vinha por sua causa.

A injustiça feria o coração de Drogo. Por que tudo para Angustina e nada para ele? Se fosse qualquer outro! Mas justamente Angustina, sempre tão soberbo e arrogante! Drogo olhou as outras janelas para ver se havia alguém que pudesse eventualmente intervir por ele, mas não conseguiu enxergar ninguém.

Finalmente a liteira se deteve, balançando bem na frente da janela, e todos os fantasmas, num salto, empoleiraram-se à sua volta, formando uma palpitante coroa; todos se debruçavam para Angustina, não propriamente obsequiosos, mas com uma curiosidade ávida e quase maligna. Abandonada a si mesma, a liteira sustinha-se no ar como que suspensa por fios invisíveis.

Imediatamente Drogo despiu-se de toda inveja, pois entendeu o que estava acontecendo. Via Angustina, em pé no parapeito da janela, e seus olhos fitavam a liteira. Sim, os mensageiros das fadas, naquela noite, tinham vindo por causa dele, mas para que tipo de encargo! Para uma longa viagem, então, devia servir a liteira, e não regressaria antes da aurora, nem mesmo na noite seguinte, nem na terceira noite, nem nunca. Os salões do palácio esperariam em vão pelo patrãozinho, duas mãos de mulher fechariam cautelosamente a janela deixada aberta pelo fugitivo e todas as outras seriam trancadas para aninhar no escuro o pranto e a desolação.

Os fantasmas, antes tão amáveis, não tinham vindo então para brincar com os raios de lua, não haviam saído, inocentes criaturas, de jardins perfumados, mas tinham vindo do abismo.

As outras crianças teriam chorado, chamado pela mãe; Angustina, ao contrário, não tinha medo, e confabulava tranquilamente com os espíritos, como para estabelecer certos procedimentos que era necessário esclarecer. Apertados em torno da janela, semelhantes a um panejamento de espuma, amontoavam-se uns sobre os outros, aconchegando-se ao menino, e ele fazia que sim com a cabeça, como a dizer: está bem, está bem, perfeitamente de acordo. Por fim, o espírito que primeiro se agarrara ao parapeito, talvez o chefe, fez um pequeno gesto imperioso. Angustina, com seu ar entediado de sempre, saltou do parapeito (parecia ter ficado tão leve quanto os fantasmas) e sentou-se na liteira, como um fidalgo, cruzando as pernas. O cacho de fantasmas dissolveu-se num ondeamento de véus, a carruagem encantada pôs-se suavemente em movimento para partir.

Formou-se um cortejo, as aparições empreenderam uma evolução semicircular na reentrância das casas, para dali subirem ao céu, rumo à lua. Ao descrever o semicírculo, a liteira passou a poucos metros da janela de Drogo, que, agitando os braços, tentou gritar: “Angustina! Angustina!”, numa suprema despedida.

O amigo morto voltou então a cabeça em direção a Giovanni, fitando-o por alguns instantes, e pareceu a Drogo ver nele uma seriedade absolutamente excessiva para um menino tão novo. Mas o rosto de Angustina abria-se lentamente num sorriso de cumplicidade, como se Drogo e ele pudessem compreender muitas coisas desconhecidas para os fantasmas; uma vontade muito grande de brincar, a última ocasião para fazer ver que ele, Angustina, não precisava da piedade de ninguém: um episódio como outro qualquer, parecia dizer; seria bobagem ficar admirado.

Levado pela liteira, Angustina desviou os olhos de Drogo e virou a cabeça para a frente, na direção do cortejo, com uma espécie de curiosidade divertida e desconfiada. Parecia estar experimentando pela primeira vez um brinquedo de que não fazia nenhuma questão, mas que por conveniência não pudera recusar.

Assim afastou-se na noite, com nobreza quase inumana. Não olhou para o seu palácio, nem para a praça ali embaixo, sequer para as outras casas, ou para a cidade em que vivera.

O cortejo seguiu serpenteando lentamente no céu, cada vez mais alto, tornou-se uma confusa esteira, depois um minúsculo tufo de névoa e depois mais nada.

A janela permanecera aberta, os raios da lua ainda iluminavam a mesa, o vaso, as estatuetas de marfim, que continuavam a dormir. Lá dentro, num outro aposento, estirado na cama, à luz trêmula das velas, talvez estivesse deitado um pequeno corpo humano sem vida, cujo rosto se parecia com o de Angustina; e devia vestir um traje de veludo, uma grande gola de renda, com um sorriso gelado sobre os lábios brancos.

Published April 1, 2020
Excerpted from, Dino Buzzati, O deserto dos Tártaros, Nova Fronteira, Rio de Janeiro 2017.
© Dino Buzzati


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