Il Pet Shop di Rua Tiradentes from Tetralogia della brevità
Written in Italian by Julio Monteiro Martins
L’inferno può anche essere liquido, buio, freddo, silenzioso o vegetale. Pensavo al sommozzatore imprudente o inesperto che finisce per perdersi dentro uno di quei grovigli di alghe di centinaia di metri d’altezza e chilometri di estensione. Senza più una direzione, senza possibilità di capire dove si trova la superficie, con la batteria della torcia che sta per scaricarsi, la scorta di ossigeno che si avvicina all’esaurimento e un panico gelido che lo domina e lo paralizza, mentre lunghe foglie s’avviluppano intorno alle sue gambe e gli bloccano la visione. Davanti ai suoi occhi sfila sereno un pesciolino colorato. Sembra un disegno di un bambino, così allegro mascherato da arcobaleno. Sarà forse quel pesciolino la forma definitiva che prenderà il diavolo, la sua ultima beffa, la pubblicità dell’irrimediabile? (Ammesso che, al posto del pesciolino non ci sia, ben nascosta nella profusione di alghe, una murena, una fosca murena, con le fauci spalancate e le file di dentini aguzzi in attesa del suo avvicinarsi).
Non mi passa proprio per l’anticamera del cervello (e perché non per la hall, o per l’atrio, o per la veranda del cervello?) di scrivere un testo che abbia per titolo “Il pet shop di Rua Tiradentes”. Mi dispiace. La semplice idea mi dà sgomento. E allora come mai ho messo proprio questo titolo nel racconto? Indovinate un po’. Sì, dovete indovinare voi, perché io non ci riesco. Forse per prendervi un po’ in giro? Per stimolarvi uno scatto di fantasia del tutto sterile e fuorviante? Chissà?
Per cominciare, se è ubicato in Rua Tiradentes – una strada discreta e bucolica di Niterói, con le sue ville stile art déco, una di queste trasformata nel museo del più grande pittore cittadino, Antônio Parreiras – non può essere un pet shop, espressione sconosciuta in Brasile. Semmai sarebbe una loja de animais. Pet shop è un’espressione icona della cultura pop del secolo scorso. Penso a Little Shop of Horrors e la sua gigantesca pianta carnivora, e al piccolo pet shop dove il tenace Mr. Peebles cercava inutilmente di vendere il suo gorilla: Magilla, Gorilla For Sale! Questo per non parlare del duo Pet Shop Boys che ha venduto cento milioni di dischi grazie a brani elettronici digeribili e addomesticati, o del popolarissimo manga giapponese Pet Shop of Horrors, il negozio dell’androgino e sinistro Conte D di Chinatown.
Eh sì, confesso: volevo provocare un effetto leggermente spiazzante, leggermente piccante, ma anche brutale se uno pensa che tiradentes vuol dire “quello che cava i denti”, come erano chiamati in altri tempi i barbieri-droghieri-erboristi-dentisti-norcini, esperti di salassi e sanguisughe. Un titolo composto di quattro parole straniere su sei, in tre lingue diverse. Niente di paragonabile al “Der Leone Has Sept Cabezas”, il titolo del film di Glauber Rocha sull’imperialismo europeo in Africa, con cinque parole in cinque lingue diverse, nessuna di esse della madrelingua del regista brasiliano.
Cosa volevo? Un piccolo corto circuito causato dall’insolita contiguità tra pet shop e tiradentes, per stuzzicare i neuroni (basta neuroni pigri, rallentati dalla nauseante ridondanza della comunicazione mediatica, neuroni obesi e flaccidi, avari e svogliati nella distribuzione di sinapsi ai propri vicini) con l’aiuto di queste parole straniere che evocano al lettore italiano mondi remoti e distanti tra di loro. Sì, piccoli corti circuiti. Scariche elettriche attraversano il corpo balzante di una rana morta, alla Luigi Galvani. Di queste soavi scosse è fatta la letteratura (beh, almeno la mia).
La vita invece sembra calzare scarpe di gomma e isolarsi da terra, per improvvisamente scaricarci addosso una scossa di migliaia e migliaia di volt e fulminarci istantaneamente. Ecco, scrivere è anche dosare l’elettricità e limitare lo shock che nella vita sarebbe letale o invalidante. Addomesticare le belve per poi metterle in vendita nella vetrina di una sorta di pet shop dietro la loro copertina patinata.
Pet shop, se pensate bene, è un’espressione di un cinismo grottesco: si tratta di un negozio (shop) dove si mettono in vendita i beniamini, le creature favorite (pet). È impossibile non pensare a tutti quelli che ogni giorno vendono i propri amici senza bisogno di un negozio per farlo, che anzi preferiscono farlo di nascosto, al nero. Li svendono, offrono in saldo proprio gli amici più leali, che improvvisamente si trovano venduti perché si fidavano ciecamente di loro.
Poi, non ho scelto rua Tiradentes per ragioni odontologiche. L’ho scelta molto consapevolmente per due ragioni: la prima perché in una mostra di arte moderna nel Clube Português, in quella stessa strada, ho conosciuto Sheyla. Era il 1974, l’arte era surrealista e lisergica, perché un realismo impegnato non era permesso dalla censura militare, Sheyla aveva capelli rossi naturali, lentiggini strategiche, ed era la donna più bella che avessi mai visto fino a quel momento. Massimo splendore del rock progressivo. Nixon rinunciava, il Khmer Rosso uccideva, i portoghesi facevano la loro rivoluzione con i garofani nelle canne dei fucili ed io ero perdutamente innamorato.
La seconda ragione: colpo di scena. Sì, c’era un negozio di animali in via Tiradentes. Ditemi un po’, non è fantastica la letteratura?
Tanti anni sono passati dall’ultima volta che l’ho visto, che i ricordi scivolano di qua e di là, e quando riesco ad aggrapparli sono quasi illeggibili tanto sono sbiaditi. Ma facendo uno sforzo di memoria rivedo, a tratti, il pappagallo, certi coniglietti, certi criceti, e gli animali della nostra fauna: scimmiette con la criniera, serpenti color smeraldo, armadilli, formichieri, piccoli cuccioli di tapiro striati, giaguari non più grandi di un gatto siamese (ma molto più feroci!). A volte la memoria mi restituisce in flash soltanto le loro case disabitate: gabbie di legno e di metallo, casette per cani, cucce per gattini, voliere, catene, ruote girevoli per criceti esausti, guinzagli e museruole.
Si sarà trasformato nel tempo in un pet shop fantasma a causa delle nuove leggi di protezione della fauna, o sono stato io invece a riempire con la fantasia quelle prigioni deserte con anime e guaiti lontani che non sono mai esistiti? Sono stanco però di forzare inutilmente la memoria in cerca di bestie virtuali. Il mistero del pet shop di Rua Tiradentes dovrà continuare a rimanere un mistero, a meno che uno di voi lettori – e non vi invidierei in questo caso – si presti a viaggiare a Niterói per fare una bella ricerca negli archivi della Camera di Commercio locale.
A dire il vero, preferirei che fosse stato solo un lapsus involontario, un caso di “memoria creativa”, il mio. Perché è così triste pensare a un negozio di animali oppresso dalla bruma chimica di una metropoli brasiliana, mentre il Brasile sembra fatto, più che altri paesi, per celebrare la magnificenza degli animali libri e selvatici. Il paese appartiene a loro. Nei miei ricordi fasulli invece li vedo incarcerati, mesti, abbandonati dalla natura e maltrattati dagli uomini, simili all’asino di Marrakech descritto da Canetti come “una miserabile, vecchia, debole creatura che stava per crollare, senza carne, senza forza, senza un vero e proprio pelo”, tutti imprigionati in quella bottega degli orrori, senza più speranza di rivedere il cielo.
– Qui, caro signore, non c’è un briciolo di storia, uno straccio di personaggio. Abbia pazienza. La chiama “narrativa” questa? Mah… Non lo so. Io, certe cose non le accetto proprio. Ma come si permette? Cos’è? Una presa in giro? Sì, perché, lei capisce, io mi faccio un mazzo così per trovarmi un’oretta libera e mi illudo che questa sera mi porterò a letto una bella storiella, o almeno qualcosa scritta a modo, ben raccontata e, perché no, anche emozionante, tocco lo schermo del tablet con la punta del dito tutto felice e cosa mi appare davanti? Questa schifezza illeggibile, un testo cretino come il suo autore, mi scusi.
– Mi dispiace.
– Pure a me.
– Ma sono sicuro che non rimarrà deluso. Ho qui con me qualcosa che le piacerà di sicuro.
– Sì? E cos’è?
– Una storia!
– Ma guarda questo… un racconto?
– Eccolo qua.
– Va beh. Va beh. Vediamo un po’.
«Mi svegliavo sempre con un po’ di nausea, non riuscivo a fare colazione, ma già a metà mattinata morivo di fame, lo stomaco brontolava. Così, nell’intervallo tra la seconda e la terza lezione scappavo dalla Facoltà di Economia, attraversavo via Tiradentes, ancora tranquilla a quell’ora, e camminavo in fretta fino al bar all’angolo, Pérola do Ingá, per mangiare il mio panino al formaggio con coca-cola che Jailson, il barista, preparava sempre in anticipo perché io non perdessi la lezione.
Tutte le mattine la stessa fuga rituale: prima la scalinata, poi la strada, il museo, l’asilo nido Pingo de Gente, il pet shop Amigo Fiel, il benzinaio Ale e finalmente il Pérola do Ingá. Come raccontava Heine delle passeggiate di Kant a Königsberg ‘credo che l’orologio della cattedrale non sia stato mai così puntuale nel suo movimento come il filosofo. I vicini sapevano essere le tre e mezzo in punto, allorquando Kant, col suo abito grigio e la sua canna d’India in mano, usciva da casa sua e s’avviava verso il viale dei tigli.’ E così era anche con il mio primo sorso di coca-cola da Jailson.
Ma successe che in un venerdì grigiastro saltai il mio appuntamento col panino al formaggio (quale formaggio? Allora, in Brasile lo chiamano mussarela, brasilianizzando la parola italiana mozzarella e usandola per denominare un formaggio giallo scuro come l’emmenthal, di pasta dura e un po’ farinosa, tagliato a fettine sottile e che con la vera mozzarella non ha proprio niente a che vedere). Mentre passavo davanti al pet shop sentii vicinissimo al mio orecchio il rumore di un martello che colpiva una barra di ferro. Trasalii e mi fermai, le gambe bloccate nel gesto del passo incompiuto, come si fermano da secoli le lotte e le danze al suono di un gong. Poi, la stessa botta una seconda volta. Mi guardai attorno, poi dentro il negozio, ma niente: cagnolini, pappagallini e altri uccelli, gabbiette, becchime e in fondo un signore pelato che sonnecchiava dietro il balcone (Mr. Peebles?), quando improvvisamente la martellata colpì nuovamente, altissima, stavolta seguita da un lungo raschiare di una lima sul metallo. Solo allora capii che quel suono agghiacciante veniva dalla gola di un uccello bianco con il becco e la testa di un azzurro intenso, grande come un piccione. Il canto (canto?…), il cinguettio (eh no, cinguettio no!) dell’araponga.
Ne avevo sentito parlare, il martello contro l’incudine, ma quella era la prima volta che lo udivo di persona, ed era impressionante. Quell’uccello siderurgico era l’araldo della modernità industriale. O forse no. Forse era l’antico fabbro a forgiare spade e scudi, mazze e armature. (Il pelato proseguiva indisturbato il suo sonnellino, assuefatto alle martellate, ma forse sognava se stesso come Commodo nel circo dei gladiatori.)
L’avrei seguita ovunque l’araponga bianca, ogni suo colpo un ordine. Rimasi lì, imbambolato sul marciapiedi a guardarla, ad ascoltarla, anche dopo l’inizio della terza lezione. Bein! Bein! Raaach! Ero come stregato. Ricevevo felice quelle botte in testa. Beiiing! Non avrei mai potuto comprare quell’uccello, perché era lui che aveva catturato me. Non sentivo più fame, non m’importava più della mussarela, non sognavo più la coca-cola.
Araponga, regina di via Tiradentes, sei il suono più potente della Terra. Portami con te alle fornaci di Vulcano, dona al mio gladio la tempra perfetta.
E l’araponga, ascoltando le mie suppliche, rispose: Mai più! Mai più! ».
– Allora, soddisfatto?
– Ma come soddisfatto? Soddisfatto di che? Ma non si vergogna di usare così sfacciatamente Wikipedia e Google Earth al posto della memoria per scrivere il suo raccontino?
– Come ha fatto a indovinare?
– Ma si vergogni! Che furbacchione… Internet no, eh! Così non vale.
Published August 7, 2018
Excerpted from Tetralogia della brevità (2007-2014), unpublished.
© eredi Julio Monteiro Martins
Il Pet Shop di Rua Tiradentes from Tetralogia della brevità
Written in Italian by Julio Monteiro Martins
Translated into Portuguese by Bruna Almeida Paroni
O inferno pode até ser líquido, escuro, frio, silencioso ou vegetal. Eu sempre pensei como um mergulhador imprudente ou sem experiência que termina por perder-se dentro de um daqueles nós de algas de vários metros de altura e quilômetros de extensão. Sem uma direção, sem nenhuma possibilidade de compreender onde está a superfície, com a bateria da lanterna quase descarregada, o estoque de oxigênio que se aproxima ao fim e um pânico gélido que o domina e o paralisa, enquanto longas folhas se enroscam em torno às suas pernas, bloqueando-lhe a visão. Na frente de seus olhos desfila, serenamente, um peixinho colorido. Se parece com um desenho de uma criança, tão alegre, mascarado de arco-íris. Será aquele peixinho a forma definitiva no qual se transformará o diabo, a sua última gozação, a publicidade do irremediável? (Admitindo, claro, que no lugar do peixinho não exista, de tão bem escondida na abundância de algas, uma moreia, uma ameaçadora moreia, com a garganta escancarada e as fileiras de dentinhos afiados à espera do bote).
Não me passa de jeito nenhum pela antecâmara do cérebro (e por que não pelo hall, ou pela cobertura, ou pelo terraço do cérebro?) de escrever um texto que tenha como título “Il Pet Shop di Rua Tiradentes”. Sinto muito. A simples ideia de fazê-lo me assusta. E então por que eu escolhi justamente esse título para esse conto? Adivinhem. Sim, vocês é têm que adivinhar, porque eu não consigo. Talvez para zombar um pouco de vocês? Para estimular-lhes um pouco de fantasia totalmente estéril e desvirtuada? Quem sabe?
Pra começo de conversa, encontra-se na Rua Tirandentes – uma rua discreta e bucólica de Niterói, com as suas mansões em estilo art déco, cuja uma fora transformada no museu do maior pintor da cidade, Antônio Parreiras – não pode ser um pet shop, expressão desconhecida no Brasil. De algum modo, seria uma loja de animais. Pet shop é uma expressão ícone da cultura pop do século passado. Penso em A Pequena Loja dos Horrores e a sua gigantesca planta carnívora, e ao pequeno pet shop no qual o tenaz Sr. Peebles tentava inutilmente vender o seu gorila: Magilla, gorilla for Sale! Sem mencionar o duo Pet Shop Boys que venderam cem milhões de discos, graças às músicas eletrônicas digestivas e domesticadas, ou no muito popular mangá japonês Pet Shop of Horrors e aquela coisa do andrógeno e sinistro Conde D de Chinatown.
Bem, sim, confesso: eu queria provocar um efeito levemente desconcertante, levemente picante, mas também brutal se pensarmos que Tiradentes significa “aquele que arranca os dentes”, como eram assim chamados, em outros tempos, os barbeiros-comerciantes-ervanários-dentistas-açougueiros, especialistas em sangria e sanguessugas. Um título composto por quatro palavras estrangeiras de seis, em três línguas diversas. Nada de comparável a Der Leone Has Sept Cabeças, o título do filme de Glauber Rocha sobre o imperialismo europeu em África, com cinco palavras em cinco línguas diferentes, do qual nenhuma dessas na língua materna do diretor brasileiro.
O que eu queria? Um pequeno curto circuito causado pela singular proximidade entre pet shop e tiradentes, para cutucar os neurônios (chega de neurônios preguiçosos, desacelerados pela nauseante redundância da comunicação midiática, neurônios obesos e flácidos, avaros e folgados durante a distribuição de sinapses aos próprios vizinhos) com ajuda destas palavras estrangeiras que evocam ao leitor italiano mundos remotos e distantes entre si. Sim, pequenos curtos circuitos. Descargas elétricas que atravessam o corpo robusto de uma rã morta, à Luigi Galvani. Por essas suaves sacudidas é feita a literatura (bom, pelo menos a minha).
A vida, ao contrário, parece calçar sapatos de borracha e isolar-se da terra, para, de improviso, descarregar sobre nós um choque de milhões e milhões de volts e queimar-nos instantaneamente. Pois bem, escrever é também dosar a eletricidade e limitar o choque que, na vida, seria letal ou que nos deixaria inválidos. Domesticar as feras para depois colocá-las em venda nas vitrines de uma espécie de pet shop atrás das capas extremamente bem-cuidadas.
Pet shop, se vocês pensarem bem, é uma expressão de um cinismo grotesco: trata-se de uma loja (shop) no qual se colocam à venda os animais de estimação, as criaturas preferidas (pet). É impossível não pensar em todos aqueles que, todos os dias, vendem os próprios amigos sem necessidade de uma loja para poder fazê-lo, que, aliás, preferem fazê-lo escondido, ilegalmente. Livram-se deles, oferecem com descontos os próprios amigos mais leais, que de repente, encontram-se vendidos, só porque confiam cegamente neles.
Em seguida, não escolhi a rua Tiradentes por razões odontológicas. Eu a escolhi, conscientemente, por dois motivos: primeiro porque, em uma exposição de arte moderna no Clube Português, naquela mesma rua, eu conheci Sheyla. Era o ano de 1974, a arte era surrealista e psicodélica, porque um realismo militante não era permitido pela censura militar, Sheyla tinha os cabelos naturalmente ruivos, sardas estratégicas, e era a mulher mais linda de todas que eu tinha visto até aquele momento. Máximo esplendor do rock progressivo. Nixon renunciava, il Khmer Rosso matava, os portugueses faziam a revolução com os cravos nos canos dos fuzis e eu estava perdidamente apaixonado.
O segundo motivo: plot twist. Sim, havia uma loja de animais na Rua Tiradentes. Digam-me uma coisa: não é fantástica, a literatura?
Muitos anos se passaram desde a última vez em que eu a vi, no qual as lembranças me escorriam aqui e ali, e quando consigo agarrá-las, são quase ilegíveis, são até mesmo vagas. Mas forçando a memória, eu consigo rever, por vezes, o papagaio, alguns coelhinhos, alguns hamsters e os animais da nossa fauna: os micos-leões-dourados, a jiboias-verde, os tatus, os tamanduás, os pequenos filhotes de anta listrados, jaguares não muito maiores do que um gato siamês (mas muito mais ferozes!). Às vezes, a memória me restitui somente alguns flashes das casas inabitadas desses animais: gaiolas de madeira e de metal, casinhas de cachorro, caminhas para gatos, viveiros, correntes, rodinhas giratórias para hamsters estressados, coleiras e focinheiras.
Transformar-se-á, ao longo do tempo, em um pet shop fantasma por causa das novas leis de proteção da fauna, ou fui eu, ao contrário, que enchi de fantasia aquelas prisões desertas com almas e ganidos distantes, que talvez nunca existiram? Estou cansado de forçar inutilmente a memória à procura de feras virtuais. O mistério do pet shop da rua Tiradentes continuará um mistério, a menos que um de vocês, leitores – e, nesse caso, eu não invejo vocês – se prontifique a viajar até Niterói e fazer uma bela de uma pesquisa nos arquivos da Câmara de Comércio local.
Para falar a verdade, eu preferiria que tudo isso tivesse sido somente um lapso involuntário, um caso de “memória criativa”, o meu. Porque é tão triste pensar que uma loja de animais seja oprimida pela bruma química de uma metrópole brasileira, enquanto que o Brasil, por outro lado, parece ser feito, mais do que outros países, para celebrar a magnificência dos animais livres e selvagens. O país pertence a eles. Nas minhas falsas memórias, ao contrário, eu os vejo encarcerados, descontentes, abandonados pela natureza e maltratados pelos homens, iguais ao asno de Marraquexe, descrito por Canetti como “uma miserável, velha, fraca criatura que estava por morrer, sem carne, sem força, sem um único pelo”, todos aprisionados naquela vendinha do terror, sem nenhuma esperança de rever o céu.
– Aqui, caro senhor, não tem uma migalha de história, um sinal de personagem. Tenha paciência. O senhor chama “narrativa” isso daqui? Não sei, não. Têm coisas que eu simplesmente não aceito. Como ousa? O que? Uma brincadeira? Sim, porque o senhor entende, eu me esforço tanto para encontrar uma horinha livre e me iludo que hoje à noite eu levarei para a cama uma bela duma historiazinha, ou pelo menos alguma coisa escrita como se deve, bem contada e, por que não?, também emocionante, eu toco a tela do tablet com a ponta do dedo todo feliz e o que me aparece? Essa porcaria ilegível, um texto cretino igual ao seu autor, desculpe-me.
– Sinto muito.
– Eu também.
– Mas eu tenho certeza de que o senhor não se arrependerá. Eu tenho aqui comigo algumas coisas que agradarão ao senhor.
– Ah, sim? E o que é?
-Uma história!
– Mas olha só esse daí… Um conto?
-Ei-lo aqui.
-Tá bom. Tá bom. Deixa-me ver.
«Eu sempre acordava com um pouco de náusea, não conseguia tomar café da manhã, mas já no meio da manhã eu estava morrendo de fome, o estômago roncava. Então, no intervalo entre a segunda e a terceira aula, eu escapava da Faculdade de Economia, atravessava a rua Tiradentes, aquela hora ainda tranquila, e caminhava com pressa até a padaria da esquina, Pérola do Ingá, para comer um sanduíche de queijo com coca-cola que Jailson, o atendente, preparava sempre antes para que eu não perdesse a aula.
Todas as manhãs, a mesma fuga ritual: primeiro a escadaria, depois a rua, o museu, a creche Pingo de Gente, o pet shop Amigo Fiel, o frentista Ale e finalmente a Pérola do Ingá. Como contava Heine sobre os passeios de Kant em Königsberg “acredito que o relógio da catedral não tenha nunca sido pontual em seu movimento como o filósofo. Os vizinhos sabiam que eram três e meia em ponto quando Kant, com o seu terno cinza e a sua bengala da Índia em mãos, saía de casa e ia em direção à avenida das tílias.”. E era assim também o meu primeiro gole de Coca-Cola lá no Jailson.
Mas aconteceu que em uma sexta feira cinza, pulei o meu encontro com o sanduíche de queijo (qual queijo? Então, no Brasil, chama-se muçarela, abrasileirando a palavra italiana mozzarella e a usamos para denominar um queijo amarelo escuro como o emmental, de pasta dura e um pouco farinhenta, cortado em fatias finas e que com a verdadeira muçarela não realmente tem nada a ver). Enquanto eu passava em frente ao pet shop, senti bem próximo ao meu ouvido um barulho de um martelo que golpeava uma barra de ferro. Assustei-me e parei, as pernas bloqueadas no gesto do passo incompleto, como param há séculos as lutas e as danças ao som de um gongo. Depois, o mesmo barulho uma segunda vez. Olhei ao redor, depois dentro da loja, mas não havia nada: cachorrinhos, papagaiozinhos e outros pássaros, gaiolazinhas, alpiste e, no fundo, um senhor careca que cochilava atrás do balcão (Sr. Peebles?), quando de repente uma martelada golpeou novamente, muito forte, dessa vez seguida de um longo arranhado de uma lixa no metal. Só então entendi que aquele som paralisador saía da garganta de um pássaro branco com o bico e com a cabeça de um azul muito intenso, grande como um pombo. O canto (canto?), o piar (não, piar, não!), da araponga.
Eu tinha ouvido falar disso, o martelo contra a bigorna, mas aquela era a única vez que eu ouvia pessoalmente e era impressionante. Aquele pássaro siderúrgico era o arauto da modernidade industrial. Ou talvez não. Talvez era como um velho ferreiro que forja espadas e escudos, maças e armaduras. (O careca continuava tranquilamente a cochilar, já acostumado com as marteladas, mas talvez sonhava com si mesmo como Cômodo no circo dos gladiadores).
Eu teria seguido a araponga em todo lugar, cada golpe seu, uma ordem. Fiquei ali, estupefato, na calçada, olhando-a, ouvindo-a, até mesmo depois do início da terceira aula. Bein! Bein! Raaach! Sentia-me enfeitiçado. Eu recebia, feliz, aqueles golpes na cabeça. Beiiing! Eu nunca poderia comprar aquele pássaro, porque era ele quem me havia capturado. Não sentia mais fome, não me importava mais com a muçarela, não sonhava mais com a Coca-Cola.
Araponga, rainha da rua Tiradentes, és o som mais potente da Terra. Leve-me com você às chamas de Vulcano, doe ao meu gládio a têmpera perfeita.
E a araponga, ouvindo as minhas súplicas, respondeu: Nunca mais! Nunca mais!».
-E então? Satisfeito?
-Como assim satisfeito? Satisfeito com o que? Mas o senhor não se envergonha de ter usado, de maneira tão descarada, Wikipedia e Google Earth no lugar da memória para escrever esse seu continho?
-Como o senhor adivinhou?
-Tenha vergonha na cara! Que espertinho… Internet, não, hein? Assim não vale.
Published August 7, 2018
Excerpted from Tetralogia della brevità (2007-2014), unpublished.
© eredi Julio Monteiro Martins
© 2018 Specimen
Il Pet Shop di Rua Tiradentes from Tetralogia della brevità
Written in Italian by Julio Monteiro Martins
Translated into English by Brenda Porster
Hell can also be liquid, dark, cold, silent or vegetal. I thought of the imprudent or inexpert diver who winds up getting lost in one of those tangles of seaweed hundreds of yards high and miles wide. Without any direction, without any possibility of seeing how to reach the surface, with his flashlight about to go out and a freezing, paralysing panic taking over, while long leaves wind around his legs and block his vision. In front of his eyes a multi-coloured fish swims by serenely. The fish looks like a child’s drawing, happily disguised as a rainbow. Maybe that fish is the definitive form taken by the devil, his final joke, an advertisement for the irremediable? (Or else instead of the little fish there could be, hidden amidst the profusion of seaweed, a moray eel with wide-open jaws and rows of tiny sharp teeth lying in wait for him to come its way).
It would never even vaguely cross my mind (and why not pass through, or slip into, or pop up in my mind?) to write a work that has the title “Il Pet Shop di Rua Tiradentes”. I’m sorry. The very idea makes me shudder. So how come I used precisely that title for the story? Try and guess. Yes, you have to guess, because it’s beyond me. Maybe I did it to make fun of you, a bit? To push you into taking a totally sterile and misguided imaginative leap? Who knows?
To begin with, although it is located in Rua Tiradentes – a rather pleasant, bucolic street of Niterói, with its art déco villas, one of which has been made into the largest museum of the great local painter, Antônio Parreira – it can’t be a pet shop, an expression unknown in Brazil. If anything, it would be a loja de animais. Pet shop is an iconic expression of the pop culture of the last century. I’m thinking of the Little Shop of Horrors and its giant carnivorous plant, or of the small pet shop where the tenacious Mr. Peebles tried in vain to sell his gorilla — Magilla, Gorilla For Sale! Not to mention the duo the Pet Shop Boys, who sold a hundred million records thanks to tame, easy-to-digest electronic tracks, or the wildly popular Japanese manga Pet Shop of Horrors, the shop of the sinister, androgynous Count D of Chinatown.
Well, all right, I have to confess – I wanted to create a slightly disarming, slightly risqué effect, but one that was also brutal, if you consider that tiradentes means “tooth-puller”, as they used to call barbers-grocers-herbalists-dentists-butchers, experts in bloodletting and leeches. A title composed of four foreign words out of six, in three different languages. Nothing comparable to “Der Leone Has Sept Cabezas”, the title of Glauber Rocha’s film on European imperialism in Africa, with five words in five different languages, none of which were the Brazilian director’s native tongue.
What did I want? A brief short circuit caused by the unexpected contiguity between pet shop and tiradentes, to stimulate the neurons (down with lazy neurons, made sluggish by the nauseating redundancy of media communication, obese and flaccid neurons, stingy and lazy in the distribution of synapses to their neighbours) with the help of these foreign words that evoke remote, widespread worlds to the Italian reader. Yes, brief short circuits. Electric charges surging through the jerking body of a dead frog, like Luigi Galvani. Of these suave shocks literature is made (well, at least mine is).
Instead, it seems that life wears rubber shoes to isolate itself from the ground, and then all at once discharges a shock of thousands and thousands of volts that electrocute us instantly. So writing is also a matter of dosing the electricity and limiting the shock that in life would be lethal or incapacitating: taming beasts and putting them up for sale in the window of a sort of pet shop behind a glossy cover.
Pet shop, if you consider it well, is a grotesquely cynical expression – what it is in reality is a shop where our favourites, our darling creatures (our pets) are up for sale. It is impossible not to think of all the people who sell their friends every day without needing a shop to do it, who in fact prefer doing it secretly, under the table. They sell them off, they offer at a discount their most loyal friends, who suddenly find themselves sold just because they were blindly trusting.
Nor did I choose rua Tiradentes for reasons of dentistry. I chose it with the utmost deliberation for two reasons: the first because at a modern art show in the Clube Português, in that very street, I met Sheyla. It was 1974, the art was surrealist and lysergic, because committed realism was not allowed by the military censorship. Sheyla had naturally red hair and strategic freckles and was the most beautiful woman I’d ever seen until that moment. Maximum splendour of progressive rock. Nixon had resigned, the Khmer Rosso were on the rampage, the Portuguese were making their revolution with carnations in their rifle barrels, and I was head over heels in love.
The second reason: coup de théậtre! Yes, there really was an animal shop in via Tiradentes. Now you tell me – isn’t literature fantastic?
So many years have passed since the last time I saw it that memories slide around, and when I do manage to grasp them they’re so faded as to be almost illegible. But if I force my memory, I can see, off and on, the parrot, some rabbits, some hamsters, and the animals belonging to our Brazilian fauna – crested monkeys, emerald snakes, armadillos, anteaters, striped tapir cubs, jaguars no larger than a Siamese cat (but a great deal more ferocious!). Sometimes memory yields only flashes of their empty houses – wooden and metal cages, kennels, cat baskets, aviaries, chains, revolving wheels for exhausted hamsters, leads and muzzles.
Over time it will have changed into a ghost pet shop, thanks to the new laws for the protection of animals, or was it just my imagination that filled those deserted prisons with distant souls and yelps that never existed? But I’m tired of taxing my memory in vain in the search for virtual animals. The mystery of the pet shop of Rua Tiradentes will have to remain a mystery, unless one of you readers – and I wouldn’t envy you is this case – is willing to travel to Niterói to do some research in the archives of the local Chamber of Commerce.
To be perfectly truthful, I’d rather mine were only an involuntary lapse, a case of “creative memory”. Because it’s so sad to think of a shop of animals oppressed by the chemical haze of a Brazilian metropolis when Brazil seems made on purpose, more than other countries, to celebrate the magnificence of animals free in the wild. The country belongs to them. Instead, in my false memories I see them imprisoned, abandoned by nature and mistreated by men, like the ass in Marrakech described by Canetti as “a miserable, old, weak creature on the verge of collapse, fleshless and lacking real fur”. All of them shut up in that shop of horrors, without any hope of seeing the sky again.
– My dear man, there isn’t a scrap of a story or a trace of a character here. For heaven’s sake! Is this what you call “narration”? Well … I don’t know. For me, some things are just not acceptable. How dare you? What is this? A joke? Because I’m sure you understand, here I make the effort to find a free hour and delude myself that this evening I’ll take a nice little story to bed, or at least something well-written, engaging, and, why not, even exciting, I happily touch the tablet monitor with my fingertip and what comes on? This unreadable junk, a text as idiotic as its author, if you pardon me saying so.
– I’m sorry.
– Me too.
– But I’m sure you won’t be disappointed. I have something here with me that I’m sure you’ll like.
– Oh, really? And what is it?
– A story!
– The nerve of him … a story?
– Here it is.
– Ok, ok. Let’s have a look.
«I always woke up slightly nauseous and couldn’t finish my breakfast, but by mid-morning I was dying of hunger, and my stomach was grumbling. So in the break between the second and the third classes I ducked out of the Economics Department, crossed via Tiradentes, still peaceful at that hour, and walked quickly to the café on the corner, Pérola do Ingá, to have the cheese sandwich and coke that Jailson, the man at the counter, always kept ready and waiting for me so that I wouldn’t be late for my class.
Every morning the same ritual flight: first the stairs, then the street, the museum, the Pingo de Gente nursery school, the Amigo Fiel pet shop, Ale’s petrol station, and finally Pérola do Ingá. As Heine said about Kant’s walks in Königsberg, ‘I don’t believe that the cathedral clock was ever as punctual in its movements as the philosopher. The neighbours knew it was half past three on the dot whenever Kant, in his grey suit and with his India stick in hand, left his house and directed himself towards the avenue of lindens.’ Just like my first sip of coke at Jailson’s.
But then one greyish Friday I skipped my date with the cheese sandwich (which cheese? back then, in Brazil they called it mussarela, brazilizing the Italian word mozzarella and using it to name a dark yellow cheese rather like Swiss, with a hard, floury texture, thinly sliced, which had nothing at all in common with real mozzarella). As I was passing in front of the pet shop I heard close to my ear the noise of a hammer hitting an iron bar. Startled, I stopped in my tracks, my legs blocked in the gesture of an unfinished step, like boxing matches and dances had done for centuries at the sound of a gong. Then the same bang a second time. I looked around, then inside the shop, but there was nothing – puppies, parakeets and other birds, cages, bird food and in the back a balding man napping behind the counter (Mr Peebles?) — when suddenly the hammer hit again, loud, this time followed by a long scrape like a file on metal. Only then did I realize that the appalling sound came from the throat of a white bird with a deep blue beak and head, about as big as a pigeon. The song (song?…), the chirp (oh no, surely chirp no!) of the araponga.
I’d heard of the hammer on the anvil, but that was the first time I’d heard it personally, and it was incredible. That iron bird was the herald of industrial modernity. Or maybe not. Maybe it was the ancient ironmonger forging swords and shields, mallets and coats of arm. (The bald man continued his nap undisturbed, accustomed as he was to the hammer blows, but perhaps he was dreaming he was Commodus in the circus of gladiators).
I’d have followed the white araponga anywhere, its every blow a command. I stayed rooted to the pavement like a child, looking at it, listening to it, even after the start of the third class. Bang! Bang! Scrape! It was as if I were bewitched. I was happy to receive those blows on my head. Baiiing! I’d never be able to buy that bird, because it was he that had captured me. I wasn’t hungry any more, I didn’t care about the mussarela, or dream of the coke.
Araponga, queen of via Tiradentes, you are the most powerful sound on earth. Take me with you to Vulcan’s furnace, temper my gladius perfectly.
And the araponga, hearing my prayers, replied, ‘Never more! Never more!’».
– So, are you satisfied now?
– What do you mean, satisfied? Satisfied with what? How can you have the nerve to use Wikipedia and Google Earth instead of your memory to write your little story?
– How did you guess?
– You should be ashamed! What a foxy one you are … Internet no — no way! That’s not fair!
Published August 7, 2018
Excerpted from Tetralogia della brevità (2007-2014), unpublished.
© eredi Julio Monteiro Martins
© 2018 Specimen
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Julio Monteiro Martins was born in Niterói, State of Rio de Janeiro, Brazil, in 1955, and died in Pisa, Italy, in 2014. “Fellow in Writing” at the University of Iowa, he had taught Creative Writing in Brazil, Portugal and the U.S. before arriving in Italy, in 1996, where he taught a course of Portoguese Language and Literary Translation at the University of Pisa.
For several years, in Brazil, he carried on his political commitment along with his literary activities. After graduating in Law, he was among the founding fathers of the Brazilian Green Party and also member of the environmentalist movement Os Verdes. Advocating for human rights, he worked as a lawyer for the Centro Brasileiro de Defesa dos Direitos da Criança e do Adolescente, where he dealt with the safety of street children, the so-called meninos de rua. He published nine books including short story collections, novels and essays, such as Torpalium (1977), Sabe quem dançou? (1978), A oeste de nada (1981) and O espaço imaginário (1987).
When he moved to Italy, he settled down in Lucca where he run a narrative workshop as part of a Master in Creative Writing in a school he himself had founded and called Sagarana, along with a literary review of the same name, in 1999 (www.sagarana.net). He also published: Il percorso dell’idea (Petits poèmes en prose, 1998); the short story collections Racconti italiani (2000), La passione del vuoto (2003), L’amore scritto (2007); the metanovel Madrelingua (2005) and L’irruzione, a short story which was included in the anthology Non siamo in vendita – Voci contro il regime (2002). In 2013 he published his poetry collection La grazia di casa mia and, in 2015, his interview essay La macchina sognante, published posthumously.
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