O mi sto sbagliando di grosso (e nel caso mi corregga il Centro Meteorologico) o è proprio il Vento di Nord-ovest che dalla tarda notte di ieri l’altro si è messo a soffiare sulla città, seccando il cuore delle persone. Il vento è sceso improvvisamente dal cielo del mattino, dove brillava, in un momento di lucidità in mezzo alla follia, grande come una lacrima della notte, la stralunata stella del mattino. Prima con una folata fredda, che portava sull’epidermide fremente un po’ dell’etere delle alte regioni da cui arrivava. E dopo è diventato tiepido, poi si è riscaldato. E poi è partito senza freni, increspando il volto liscio dell’aurora, facendo frusciare le foglie degli alberi, facendo evaporare il mare che, vestito di verde, ha salutato il giorno nascente. A me ha seccato gli occhi, la bocca e l’anima perseguitata dall’insonnia, e mi ha reso insopportabile il lenzuolo, e mi ha portato ricordi secchi di vita. Ho assistito alla nascita del giorno come se stessi guardando un diamante tagliare il vetro e rimanessi irrimediabilmente a respirare polvere incessante di residui di carbone.

Dopo ho dormito e sognato. Ma i miei sogni avevano anch’essi una secchezza di calce. Ho visto contorcersi tra le fiamme il vecchio cadavere di una ragazza che morì tisica e si chiamava Alice. Ho visto uomini trascinarsi dietro a donne sopra un pavimento di rasoi. Ho visto tronchi muscolari di ficus ansimare in dispnee vegetali. Ho visto bruciare ambienti enormi in bagliori di clorofilla. Poi mi sono svegliato con la bocca secca e una tale sete da succhiare lime.

Uscendo dal centro, ho potuto sentire il male che il Nord-ovest, quel Leviatano dei venti, stava facendo alla città. All’angolo di casa mia era scomparso un bambino, che la madre cercava con gesti da Guernica. Nell’autobus (ne avevo preso uno contrassegnato “espresso”) alcune persone si erano scordate che quelle corse sono dirette e volevano scendere a Copacabana, ma l’autista non lo ha permesso perché è proibito. La parola proibito ha acquisito una secchezza tale, nel Vento di Nord-ovest, che per un istante ho avuto la visione dell’uomo carioca affogato nella cenere. Non poteva scendere dove voleva, neanche pagando. La compagnia degli autobus non lo permetteva. Avrebbe dovuto prendere un altro autobus, oppure un pulmino, per tornare indietro. Nel frattempo, erano già sorte varie discussioni e sull’avenida Atlântica c’era un incidente con due autobus rossi della linea Ipanema: uno dei due era arrivato fino al bordo del marciapiede, quasi a cadere nella sabbia, e aveva un muso assetato, come se avesse voluto affogarsi. Sulla Glória, la carcassa di un altro autobus in fiamme collassava sull’asfalto. E quello mi ha ricordato, in scala più grande, uno scheletro carbonizzato che avevo visto al cinema, che usciva da un forno, in uno dei campi di concentramento nazisti. Arrivando alla redazione, ho visto due uomini che lottavano corpo a corpo. Si aggredivano come cani rabbiosi e poi uno ha preso una pietra per sfondare la testa dell’altro e solo per caso non ci è riuscito.

E adesso, scrivendo questa cronaca che è la cruda espressione della verità, vedo che il Nord-ovest vorrebbe perfino seccare il temporale che si annuncia nel pomeriggio desolato. No, che il Vento di Nord-ovest non secchi la tempesta che deve far sbollire la città. Venite, tuoni messaggeri; graffiate il cielo, lampi! Che le acque di un nuovo diluvio si abbattano sopra la città angustiata e bagnino la terra di fango e gli alberi di linfa. Che scendano i fulmini e facciano sanguinare il fianco molle delle colline e che si ringiovanisca il cuore degli uomini. Che l’aria si rompa in folate fresche e si adagi sui capelli delle donne, frementi di elettricità.

Che smettano di frusciare le carte della burocrazia, sollevate dal Vento di Nord-ovest. Che si fermi, che si fermi immediatamente il soffio di questo tubo di aria calda che soffia sulla dentina dolorante della città. Che venga l’Azzurro, l’Azzurro, l’Azzurro!